E’ certo un caso, che il panama di Massimo Donà (filosofo, musicista jazz, accademico) occupi con prepotenza il campo della mia foto, però sembra messo lì apposta a far da guardia, in questo incontro sul tema delle parole: perché la brillante testa che c’è sotto è una di quelle che la parola la cura, la soppesa, ne fa materia di un parlare elevato e rigoroso, di un ragionare e dimostrare che come anche il jazz procede per guizzi e improvvisazioni e fluisce argomentando senza mai perdersi.
Chi meglio di lui, dunque - lo abbiamo ascoltato nelle precedenti giornate del Festival e oggi è con noi tra il pubblico - potrà da sotto l’inseparabile panama “sorvegliare” i suoi colleghi filosofi che dibattono sulle parole: su quelle che non vorremmo più ascoltare perché intossicate da retorica, abuso, moda, ignoranza, e quelle di cui invochiamo – sommessi, intimiditi dal frastuono di una lingua usata a casaccio – una riscoperta di senso.
In apertura è Luca Mastrantonio, autore dell’acuminato “Pazzesco! Dizionario ragionato di un italiano esagerato”, a scegliere per noi gli esempi agghiaccianti di una lingua forse malata terminale e a farci ridere amaro: del gergo dei social, dei borborigmi dei politici, del giornalismo-strillone. Penso, perché proprio oggi scompare il grande Oliver Sacks, a quel suo paziente, a quell’ “Uomo che scambiò sua moglie per un cappello” inconsapevole del danno cerebrale che gli impedisce di associare i nomi alle cose e gli fa credere che la testa della moglie sia un cappello: allo stesso modo la comunicazione nella società di oggi procede ignara delle proprie metastasi, incapace di “intendere quel che vuol dire”. Una lingua folle, quella di oggi - osserva Mastrantonio - molto simile alla minacciosa neo-lingua dell’orwelliano “1984”.
Una lingua “impazzita” può rinsavire? Certo non basta spazzarne via le escrescenze malate; secondo Simone Regazzoni altrettanto importante è restituire senso al suo lessico, ripartire da una riscoperta dei suoi significati profondi. L’esempio viene da alcune parole-chiave che condensano le dinamiche sociali del nostro tempo: prima fra tutte proprio la parola “dialogo”, di cui abbiamo smarrito l’originale significato platonico di scambio da cui nasce la scoperta di qualcosa di nuovo (e in tal senso, dice il filosofo, il “dialogo” per eccellenza è quello amoroso). Il dialogo invece è oggi mero “scambio di atti linguistici” che indicano un orizzonte di senso già dato. come una partita a tennis di cui sappiamo già ogni mossa.
Abbiamo parole abusate, parole la cui apparente valenza positiva sottende ipocrisie ben incuneate nel tessuto sociale: la furba liberalità di facciata della parola tolleranza definisce piuttosto un rapporto gerarchico per il quale accettiamo l’altro senza riconoscerlo, perché il suo nucleo di alterità è forte e ci respinge; altrettanto ipocrita la “modestia” che nasconde l’assenza di coraggio nell’esposizione del proprio valore: tattica reattiva che nella lotta per il riconoscimento ci evita di esporci lasciando all’altro il potere del riconoscimento stesso.
Platone è evocato anche nell’intervento di Cesare Catà, che indica negli aggettivi “platonico” e “pindarico” due parole a cui urge restituire dignità e senso: ci giungono dal mondo antico ed entrambe sollecitano questioni tutt’altro che astratte, legate anzi alle cose in maniera viva, profonda. E come ”pindarico”, nel significare il volo più ardito, è ciò che finisce per toccare il cuore più profondo del problema, così “platonico” è ciò che risale fino all’essenza delle cose; in tal senso lo stesso “amore platonico” è esperienza così intensa da essere anche esperienza del corpo. Così, scherza Catà, “quando la vostra ragazza vi dirà di volere un amore platonico, allora potete saltarle addosso…”.
Numerosi gli spunti di riflessione, in quest’ora di dibattito vivace ma serio, coi filosofi a giocare tra le parole e il pubblico a lanciare in aria con gusto quelle che ognuno maggiormente detesta. Un nutrito elenco, c’era da aspettarselo: da sinergia a sostenibilità, a capitalismo, all’orrido in-qualche-modo, al letale assolutamente e via demolendo. Strano però che non si sia nominato il termine SUV, acronimo dello stupido macchinone ostentato dal 24% degli italiani (fonte Quattroruote). Sarà che nel verde parcheggio del Castello della Rancia - più di 150 auto, tutte medio-utilitarie con rare berline di lusso - ci sono incredibilmente solo 4 SUV. Un bel segnale, no? A meno che non appartengano ai 4 filosofi…
Sara Di Giuseppe
Nessun commento:
Posta un commento