Questa
volta non posso scrivere usando la terza persona (come sarebbe
corretto) per “raccontare” la favola della maratona jazz che si è
svolta a L’Aquila il 6 settembre. Non posso usare, in questo
racconto, il distacco di chi recensisce quando gli occhi hanno visto
e sentito il gelo della morte di un città ma anche il calore di
50/60 mila persone accorse non soltanto perché amanti del jazz ma,
soprattutto, per testimoniare la propria voglia civile di ridare
alito vitale a questa città martoriata e umiliata. Se il terremoto
l’ha ferita nella carne il potere ladro, corrotto, osceno oltre
ogni limite (i nomi li conosciamo tutti!) l’ha espropriata, l’ha
calpestata ed umiliata nel suo tessuto umano, urbano e civile. I
crimini commessi a L’Aquila, contro la civiltà e l’umanità,
sono stati perpetrati con fredda determinazione: pensare ad una
Norimberga è troppo giacobino? Questa
maratona è stata un immenso contrappunto: da una parte i puntelli,
le impalcature e gli scheletri dei palazzi violentati e dall’altra
la gioia di esserci, la frenesia di rincorrere i vari concerti, la
fraternizzazione senza retorica tra perfetti sconosciuti: c’era
sempre qualcuno disposto a stringersi per regalarti qualche
centimetro di asfalto su cui sederti ad ascoltare! C’era
sui volti-stravolti, da ore ed ore di pellegrinaggi da una “location”
all’altra, il sorriso di chi ascolta ottima musica. Paolo
Di Sabatino in
Piazza Santa Margherita, Javier
Girotto e
Paolo
Fresu sulla
Scalinata di San Bernardino, Carlo
Morena, Raffaele Casarano e Mirko Signorile, Francesco Cafisoe Mauro
Schiavone, Petrina, Antonello Salis ai
Portici di San Bernardino, il Quartetto
Alborada nella
chiesa di S.Giuseppe artigiano, Enrico
Zanisi, Dado Moroni nella
Basilica di San Bernardino, Enrico
Rava, Danilo Rea, Rita Marcotulli e Maria Pia De Vito
al Duomo sono le perle che ho potuto inanellare non avendo il dono
dell’ubiquità come S.Antonio (ma l’ho tanto desiderato!): i
nostri sorrisi erano quelli di chi, nota dopo nota, riusciva a
sognare la favola in cui gli antichi muri de L’Aquila si
scrollavano di dosso la turpitudine di tubolari e ponteggi da zona
rossa (per la vergogna!!) per riaccogliere i propri abitanti
nell’antica e severa bellezza delle loro architetture e, insieme,
tornare a vivere. Ma se
quella vissuta domenica era la città simile a quella
“come-dovrebbe-essere”, quella che mi ha accompagnato al
parcheggio di Collemaggio, ormai notte, era invece la città dei
vicoli incatenati, dei muri sbriciolati, dei silenzi irreali della
morte e dell’abbandono, la stessa – o pressappoco – dei giorni
di sempre: da quel 6 aprile…e con tanta mestizia sono tornato in
“questa” Italietta.
Francesco Di Giuseppe
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