"Da
lungo tempo esisteva a Roma la corporazione degli orefici, dapprima
associati ai sellai e ai fabbri; separatisi da costoro nel 1509 si
costruirono, col beneplacito di Giulio II, la chiesa di S. Eligio in
Via Giulia, il cui progetto è di Raffaello". (Gregorovius,
Storia di Roma nel Medioevo).
Ci
si sente bene ad entrare in luoghi così: si ritrova il profumo del
legno antico, un’intimità elegante e discreta che induce a parlare
a bassa voce. Ci si sente “leggeri e puliti” come le linee
dell’architettura raffaellesca che disegnano la chiesa. Anche gli
appellativi delle cariche istituzionali - Console Camerlengo,
Console, Probiviri – richiamano l’incomparabile stagione del
Rinascimento romano. Poi, si è colti da un fremito di stupore
allorché si scopre che lì, da cinquecento anni, si è pensato il
Bello, ci si è occupati del Bello (e si continua…): merce sempre
più rara ahimè… ahinoi!
Dove se non qui, d’altronde, eseguire
musica di altissimo livello, con un musicista di rango come Paolo
Perrone al violino?
Egli
fruga nella “nicchia” delle composizioni barocche “a
violino solo senza basso”,
dunque senza l’accompagnamento di clavicembali, violoncelli e
altro, tipici del basso-continuo.
Particolarità che Bach
consegnò all’empireo della musica con le Sei
Sonate e Partite per violino solo BWV 1001÷
1006 (o
come lui le chiamava: Sei
Solo a Violino senza Basso accompagnato),
e
che Telemann, Pisendel e Von Biber, a loro volta, scandagliarono alla
ricerca di tutte le “potenzialità polifoniche del violino”*
Opere che sperimentavano strade fuori dal
comune comporre dell’epoca: quando, non esistendo il brano per
solista, si richiedeva la capacità di ricavare dallo strumento anche
le tonalità basse di accompagnamento e sottolineatura normalmente
svolte da altri strumenti.
La moda del virtuosismo sfrenato (si
privilegiava più l’interprete che il contenuto!) era di là da
venire, e ciò rende evidente quanto realmente virtuosi fossero i
violinisti dell’epoca.
Paolo Perrone
lo dimostra tutto questo con un’esecuzione impeccabile: vi si
coglie il primo balenare dello stile definito “classico”,
tangibile in alcuni accenti del primo movimento della Fantasia
IV
di
Telemann; ma anche l’asciuttezza astratta (non sfigurerebbe in
tante composizioni contemporanee) dell’esecuzione del secondo
movimento; e infine, nel terzo, il ritorno all’alternanza
contrappuntistica di bassi e alti tipicamente barocca: come i grandi
del passato.
Nella
Passacaglia
in sol min (l’Angelo custode)
di
Biber,
il M°:Perrone legge con esattezza la cifra devozionale impressa
dall’autore ad una forma musicale di origine profana e popolare,
usata da musicisti girovaghi; del resto chi conosce la profondità
religiosa delle sue meravigliose Messe comprende facilmente le
motivazioni di tale operazione: è un canto-preghiera accorato e
struggente. Le “contaminazioni” - oggi di moda – in fondo hanno
già qualche secolo ed autorevoli antenati da Vivaldi a Bach da Liszt
a Rachmaminoff: l’importante è saperle fare…
L’esecuzione
della Sonata
in la maj.
di Pisendel
sottolinea per intero “l’italianità” delle
influenze di Torelli e Vivaldi sull’autore: melodiosità,
dolcezza, espressività ed
eleganza - in una parola la Cantabilità
- pur in un brano cui è sottesa comunque la forma musicale di Bach.
Della
Partita n.2
di Bach è superfluo parlare, tale ne è la perfezione, se non per
dire che il M° Perrone rende quasi fisicamente palpabile la
stratosfera in cui si realizza la musica del genio di Eisenach.
La
lezione che discende da un concerto siffatto si può riassumere in
un: evviva le nicchie.
“Nicchie” musicali che magistralmente guidano a capire a fondo la
grandezza di quest’arte, stimolando a “ragionar” di musica e
non a subirla e consumarla come genere di svago. Che aiutano a
percepirla non come ottuso sottofondo del quotidiano o, peggio, come
truce attrattiva da botteghino (la sfrenata e ripetitiva
“sinfonimania” così in voga oggi) ma ad elevarla, presso noi
limitatissimi mortali, al giusto rango di paradigma etico ed estetico
della nostra stessa esistenza.
Francesco
Di Giuseppe
*Dal programma di sala
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