26/03/16

“UNTITLED”. 3 of Visions al Cotton Jazz Club di Ascoli Piceno

Quando la musica che inventi ti esce troppo bene, capita che volutamente non le dai un “titolo”. La limiterebbe. “UNTITLED” infatti è il pezzo più rappresentativo del concerto di stasera, pure tra un susseguirsi di “VISIONS” (dalla 1 alla 4, come sul disco) di tre eccellenti solisti-compositori che suonano insieme. Formazione inconsueta: senza neanche un piano, o un fiato, come puoi fare jazz? Quasi come suonare da soli. Appunto: tre “solisti” in uno! Tre “visionari” che lavorano allo stesso quadro, “3 teste, 6 mani, 6 piedi, 6 occhi” che tra acrobatiche dissonanze, astrusi tempi di 7/4 (o 9/4?) e ritmi psichedelici anni ’70 legati al rock, “dipingono” emozioni sopite.

      Con delicatezza, come in “Children of Africa” (uno dei rari titoli) - chissà perché mi viene in mente un Gino Paoli d’antan… - Evocando situazioni indefinite, fugaci, impalpabili, al limite del sogno o vissute davvero, in un’altra vita. Allora capisci che una chitarra suonata così, con morbido coraggio, vale un’orchestra d’archi; che un contrabbasso così completo ma discreto può fare qualsiasi contrappunto; che una batteria così continua e varia può condurre ovunque.

      “VISIONS”: improvvisazioni che si proiettano in spazi indefiniti, invenzioni come già ascoltate nell’inconscio, salti di ritmo e di atmosfera che rasserenano. Variazioni fantasiose e imprudenti, mai scolastiche. Tecnica sopraffina ma naturale. Leggerezza.
       E, quasi a chiusura del concerto, quella canzone Danny boy che tutti conosciamo, la quasi antica ballata irlandese che ci sdilinquiva negli anni ’60 e dire che non ci capivamo una parola: quanti ricordi, quanti sapori… poi anni, anni di dimenticatoio. Ci volevano questi tre “visionari” per riportarcela intatta e fresca, perfino ancor più nuova e dolce.

PGC

25/03/16

“Icone 2013”. I ritratti di Marco Fulvi a “L’Altro Spazio” di Grottammare

Il pomeriggio di ieri l’ho dedicato alla mostra di pittura riproposta dall’amico e collaboratore di UT (nel numero dedicato a “La tenerezza”), Marco Fulvi a Grottammare Alta, Piazza Peretti, presso il negozio di antiquariato e prodotti artigianali “L’Altro Spazio”, un luogo dall’aspetto assolutamente inedito, quasi una galleria sui generis. In tre stanze intercomunicanti appare una scenografia di grande suggestione, che accoglie originalissime creazioni in un habitat di estrema raffinatezza, come uno scrigno che si offra delicatamente allo sguardo. Si entra ed una leggera penombra accoglie sulle pareti turchine i ritratti di Marco, di un’umanità affidata a una tenace memoria: tante “icone”, volti rivissuti in profondità, colti in un loro momento irripetibile, quasi pronunciassero una sola, vergine parola con lo sguardo teso a illuminare il loro carattere, ad incontrare vis-à-vis chi arriva di volta in volta. 

Sono immagini che entrano immediatamente in dialogo con chi guarda, chiedono, raccontano l’esperienza del colore, la pazienza millimetrale dell’Artista e il momento irripetibile dell’ultima pennellata, quella che lo congeda dal quadro e lo affida ad un divenire di cui tutti restiamo partecipi. 
La tecnica pittorica, tempera ad uovo su tavola, è antichissima, e Marco dice di averla appresa a Firenze, da una suora pittrice di icone religiose.
Ogni quadro si posa, si adagia nel calore estetico ed estatico dell’ambiente, chiama elegantemente narrando dell’ incontro tra sé e l’Autore, in una forma viva di amore, lontana da ogni esibizione, promuovente una pittura classica ma anche incredibilmente nuova, fiduciosa, misteriosa ma accogliente, che invita a formulare parole ed elargire emozioni a chi visita queste stanze piene di un onesto e prezioso antiquariato che per qualche squarcio di tempo ci ha strappati alla quotidianità.


La scelta del ritratto è un esercizio amoroso, nel talento della conoscenza.
Nel caso di Marco Fulvi è l’immergersi nella storia, vista nel suo momento irripetibile, di chi passa con noi sulla scena del mondo, compagno di strada, amico, conoscente o sconosciuto la cui immagine è stata intercettata nel respiro della sua esistenza.
Marco dipinge visi come corolle tratteggiate al millesimo, basta guardare la foggia dei capelli, la curva del mento, il lago degli occhi. Un’infinita attenzione. Il desiderio di essere parte della sagoma umana che gli sta davanti, o di riconoscerla nei tratti comuni: un sopracciglio, l’arco delle labbra, l’orecchio, in una meditazione che si fa attimo e corpo, presente che sfuma nell’istante successivo, nel quadro magicamente coevi.
Ricreare la vita partendo da un’immagine è un dono che ogni volta qui scaturisce, e tratteggiare le linee perché l’immagine sia propriamente quella,

non un centimetro più piccola, non un sfumatura di colore in più, è una forma di amore silenzioso per la “figura” e per la pittura in sé, che qui si fa idioma, si dirama in storia, si va approfondendo, sfacendosi nei tratti minimi, esagerandosi nella fissità, come in un dato comune consegnato ogni volta a una memoria millimetrata, che è il tramite per un microcosmo ordinatissimo che siamo chiamati a “riconoscere”, a incontrare.
Immerso nell’unico colore dello sfondo, il volto prende corpo e luce dalla fisiognomica ogni volta inedita, per cui abbiamo il piacere di ritrovare magari un amico assorto nella sua posa incontrovertibile, in unicità con se stesso tanto da diventare icona della sua storia, contemporaneo a chi guarda per lo scroscio dei capelli o il tratto della veste, captato in un sorriso che quasi lo trascende, lo “strania”, oppure in un suo silenzio perplesso, dove forse si disegnano gli ultimi momenti prima che la posa si realizzi, e dall’atmosfera d’insieme scocchi il richiamo felice che ci induce a sostare lungamente, in una domanda che sa già d’amicizia.

Enrica Loggi

La mostra resterà aperta fino al 29 Marzo.

(Informazioni sull’Artista: www.marcofulvi.it)

16/03/16

Le meditazioni pittoriche di Vincenzo Lopardo

Si è appena conclusa la mostra di Vincenzo Lopardo al Centro Pacetti di Monteprandone. 
L’Artista ha collaborato recentemente con una sua opera per il numero di UT “Il sogno”.
Quella di Lopardo è un’arte profondamente allusiva, che attinge ad immagini-icone migranti da una tela all’altra, dispiegate in sagome ricorrenti, come note vivaci di un pentagramma, semi coloratissimi, enigmi sorridenti.
Sono creazioni silenziose che suggeriscono elementi tra il figurativo e l’astratto, vive nei colori come in piccoli grandi reperti che alludono al cromatismo di una natura lieta e perfino ricca di uno speciale humour.
Sono segni che si rincorrono, ad esprimersi in una serie di colori sovrapposti che reinventano tele o anche tavolette di legno quasi a dare l’immagine di un passaggio, di un policromo pellegrinaggio, orme di una fantasia continuamente fertile, grandemente positiva.
I quadri vivono come testimonianze di ciò che l’Artista ha meditato, sintomaticamente lasciando tracce che accendono le pareti e rimandano a nuovi concetti, a tematiche ancora a venire.

Enrica Loggi

Ulteriori informazioni: www.vincenzo-lopardo.it


06/03/16

LUCA sa fari jazz LUCA MANNUTZA Five Sounds


Luca Mannutza, pianoforte  Paolo Recchia, sax  Francesco Lento, tromba  Matteo Bortone
contrabbasso  Lorenzo Tucci, batteria
CottonJazzClub / C=Lounge – Ascoli Piceno

      Tornando dal Cotton, lungo la superstrada ripasso mentalmente il bel concerto, e i “pensieri della notte” mi si aggregano intorno ad un preciso concetto: Luca sa fari jazz. Tutto il quintetto, naturalmente. Inconfrontabili: suonano musiche “di proprietà”, tutte composte da Luca Mannutza (che infatti prima di cominciare, scambiate due affettuose chiacchiere di saluto, corre diligente a compilarsi il Borderò SIAE).
    Uno sguardo al passato ma non troppo, atmosfere “classiche”, circa anni ’60. Attualizzate, specie nella tecnica. Ma niente di inutilmente spettacolare, non gli serve: ognuno col suo bravo spartito come traccia, qualche sguardo laterale d’intesa, e imperturbabile concentrazione. Imperdibili assieme di rara precisione, quindi gli strumenti che si alternano con ordine come nelle vecchie orchestre: senza renderti prevedibile l’imprevedibile ti “accompagnano” nell’ascolto, quasi ri-equalizzando ogni volta la tua attenzione. Così non ti affatichi, rimani sulla corda, assorbi, capisci, pensi. Eh, questi sanno fare jazz.



      Lo stile di Mannutza non rassomiglia a nessuno. Sta al piano come ad una grande consolle, articola le dita con energia ed elegante nervosismo, pare che componga al momento. Invece Five Sounds è un progetto studiato nei dettagli, stratificato nel tempo, con giovani attori-musicisti di talento passione e spiccata personalità, che interpretano - rispettandola - una rigorosa “scenografia”. Equilibrio nei volumi di suono, nei fraseggi, nei silenzi e nelle pause, nei cambi di ritmo e di tempo (frequenti i 5/4, un po’ mascherati, come usava negli anni ’60/’70). Sembra quasi che si scusino per esser così bravi. Quintetto fantasioso eppure sobrio.



      Difficile ricordare ogni singolo pezzo: mica fanno motivetti. E’ l’insieme che ti si piazza in testa. Però, ah il terzultimo brano! Fascinoso e stupefacente. SAFARI. Luca stesso ci tiene a presentarlo: forse perché, penso, condensa il carattere dell’intero concerto. Non so se il nome l’abbia scelto dopo un safari - solo fotografico, certo - in Africa. Ma quell’estenuante misterioso rischioso notturno duetto-duello piano/batteria a distanza…di sicurezza, mi evoca prepotente il fitto “colloquio” tra due superbi possenti agili re della savana equatoriale, che senza aggredirsi si fronteggiano a lungo e il linguaggio di ognuno disegna nell’aria mille sfumature. Luca Mannutza quei linguaggi incomprensibili forse li ha ascoltati, li ha capiti. E scritti. Eh sì, Luca sa fari jazz.

PGC



04/03/16

Mirko Zilahy. Storia di un editoriale di successo. La presentazione di "È così che si uccide", alla biblioteca di San Benedetto


La prima delle morti è compiuta.
Tu non mi conosci. Nessuno mi conosce.
Sono solo un'ombra.
E uccido.

Fine 2014: In una Roma sferzata dalla pioggia, Mirko Zilahy e il protagonista del suo romanzo, Enrico Mancini, iniziano a conoscersi. Nascono così un incipit e una prima scena folgoranti che convincono un'importante agente letteraria: quella storia va raccontata fino in fondo.
Gennaio 2015: È così che si uccide è protagonista della Fiera del libro di Londra. I diritti vengono subito venduti in Spagna: è soltanto l'inizio. In Germania è oggetto di una aggueritissima asta e nelle ore seguenti si aggiungono Francia, Grecia e Turchia. Il numero di editori continua ad aumentare nel corso dell'anno.
Novembre 2015: Il testo viene dato alle stampe. L'entusiasmo dei librai è già palpabile, pari a quello di tutta la casa editrice Longanesi. L'attesa sta per erminare.
Gennaio 2016: Finalmente È così che si uccide
arriva in tutte le librerie.

Mirko Zilahy ha conseguito un Phd presso il Trinity College di Dublino, dove ha insegnato lingua e letteratura italiana. È giornalista pubblicista ed è stato editor per minimum fax, nonché traduttore letterario dall'inglese (ha tradotto, tra gli altri, il premio Pulitzer 2014 Il cardellino di Donna Tartt). È così che si uccide è il suo primo romanzo.



03/03/16

Salvo Lo Presti "Diario". La nota di Enrica Loggi

E’ passato un po’ di tempo da che Salvo Lo Presti mi ha affidato il suo libretto azzurro. Ho lasciato che le pagine penetrassero la mia memoria poetica per accoglierle meglio nel mio sentire. Sono semplici, lineari quando non eleganti confessioni della propria vicenda umana, guarnite da versi pieni d’armonia, anche dove toccano corde difficilissime. Il pessimismo sottile di Salvo è una corolla esistenziale ricca di eloquenti sfumature. Il poeta ci fa semplicemente dono di sé e del suo quotidiano, inquieto suo malgrado, desto ed assorto con le sue voci inclini alla tristezza, ma vive di un loro energico dispiegarsi.
La pagina di Salvo è questo suono a volte dissolto delle sue parole ma vigile nell’operare sulla poesia. Nessuna vanteria, nessun “dejà vu”. I suoi versi chiedono di poter entrare nella nostra coscienza come in un sogno, a volte come una apparizione che ci chiama. Salvo si avventura nei suoi giorni tra presenze leggere e celestiali che sorreggono i suoi versi brevi e li lasciano vibrare come alla ricerca di una benedizione della vita, uno smentire la sorte dolorosa nell’atteggiamento di chi è strenuo testimone del proprio mondo.
Ci sono passaggi, in queste poesie, che evocano l’infinito, la complessità dell’universo e la sua cecità. Volano le parole a contemplare e ad illustrare un io poetante che si esprime attraverso innocenti colori e gemiti, un parlare quasi senza voce, una vita che si unisce alle cose attraverso note dolenti-cangianti, nello spezzarsi del verso a rincorrere un canto policromo che raggiunge l’orecchio e non lo abbandona.
*
Salvo Lo Presti vive a Cupramarittima. E’ attore teatrale e ha collaborato con diverse compagnie. “Diario” (2015) è la sua opera prima. Attualmente è collaboratore e redattore di UT.
*
Ho viaggiato tutta la notte
per ritrovare un altro mondo,
un’altra vita, probabilmente.
Cerco le mie domande
in una punta d’azzurro.
Nell’ultimo cerchio
scorgo ombre ibernate.
Lentamente ogni cosa fluttua
in vortici slegati.
*
Ti hanno colorata con i pastelli.
Azzurro e viola.
Forse verde.
Profumo di corteccia umida
e tenera pelle.
*

I giorni si susseguono
senza riuscire a parlarsi.
Io fingo di esserci
e vado avanti.
Non mi accorgo di nulla.

Enrica Loggi