Un “Pilade” pasoliniano che non ti aspetti, questo di Spoleto, fatto di sorprese e contrasti. A cominciare dal contenitore: le eleganti tranquille linee neoclassiche dell’ex chiesa tardo-settecentesca di Santa Maria della Stella - oggi Auditorium - scosse dal sisma di una forma teatrale di prorompente fisicità e dionisiaco furore. Poi il pubblico mediamente agé, mediamente borghese, mediamente… medio, combattuto tra interesse, curiosità, disagio; non si è molto abituati ad integrali nudità teatrali e ad espliciti amplessi mimati a un metro da te (il cinema è altra cosa), né al pasoliniano teatro di parola recitato in inglese senza un rigo di sottotitoli italiani (un Festival mondiale - e non di un mondo solo ma di 2 - non dovrebbe incorrere in certe gaffes organizzative). Così il pubblico finisce per essere, di suo, un piccolo spettacolo: disposti sui quattro lati del “ring”, ognuno ha davanti sia la scena che le facce degli altri e, con esse, la sorprendente tavolozza delle più disparate espressioni…
Poi il finale che è, anche questo inaspettatamente, una standing ovation che non richiede l’alzarsi in piedi perché lo siamo già, gli attori ci hanno trascinati all’aperto, sul sassoso sagrato dell’ex chiesa e qui consumano gli ultimi travolgenti minuti, dopo quasi due ore di spettacolo e sudorazione (la loro) a ettolitri.
Già appena seduto, il pubblico ha avuto il suo da fare: ghermiti, alcuni, dagli attori e portati sulla scena in uno scatenato girotondo/tarantella/ballo-in-piazza (armeggiare con la fotocamera come ne andasse della vita si rivela un’ottima via di fuga…). Loro fanno buon viso e partecipano, finchè ricompostisi tutti, tutto inizia.
E il Pilade furens di Pasolini ci irrompe addosso con la provocatoria modernità del suo disperato profetismo. Pur se intuiamo nell’inglese concitato e velocissimo una traduzione non proprio fedele (“almost self-parodie” la definisceimpietoso il New York Theater Blog dopo il debutto del dicembre 2015 a Broadway), l’azione scenica lascia intatta, nella densità dei dialoghi e nella esasperata fisicità, la suggestione degli archetipi classici, metafora potente della contemporaneità nel teatro pasoliniano.
Sulla scena di oggi, Oreste e Atena, Elettra e Pilade si muovono impetuosi come rapide di torrente in piena verso il destino segnato. Oreste assolto dal matricidio e vittorioso in Argo è – con il culto di Atena, la Ragione, che qui imporrà – il potere incurante di altro che non sia se stesso e volto, nella sua razionale ferocia, al futuro, alla ricchezza, al progresso per quanto falsi e illusori. La sorella Elettra, il mite Pilade sono gli sconfitti, disperatamente uniti nel loro protendersi al passato, “l’unica cosa che noi conosciamo veramente” perché “è il ventre di nostra madre la nostra meta”.
L’Oreste di Tundhe So e il Pilade di Marko Mandić si fronteggiano sulla scena con rara plasticità e inarginabile forza; il militaresco pastrano dell’imponente Oreste contrasta con la nudità inerme dell’apollineo Pilade, e il grido e la bestemmia di quest’ultimo suggellano la solitudine della sua sconfitta e della sua diversità. L’esilio è il suo destino, la città lo ha condannato e lo allontana da sé, ad essa Pilade lancia l’anatema della sua ribellione impotente. E’ questo il senso della nostra uscita collettiva: Pilade/Mandić va incontro al suo esilio e si congeda da noi uscendo dal perimetro del sagrato. Finalmente vestito, ora (la città si turberebbe…), e inseguito dagli applausi.
Due ore circa, difficili e intense, che ci hanno provocato e sollecitato e soprattutto mostrato che il grido di Pasolini/Pilade è più che mai vivo e ci scuote e ci interroga.
Ora sì, siamo pronti a perdonare lo sconcerto iniziale, l’assenza di sottotitoli, la cattiva acustica, perfino la lunga attesa sotto il sole giaguaro del pomeriggio davanti al portone incomprensibilmente sbarrato. Sciocchezze.
Più difficile perdonare lo spostamento d’orario con effetto domino, oggi, di alcuni degnissimi spettacoli, sacrificati alla partita della milionaria Italietta germanicamente calciata.
Sara Di Giuseppe