30/07/16

Italian Brass Band & Lito Fontana in concerto: …e intorno cento persiane vibrano



Chiuse, socchiuse o aperte, hanno vibrato di gioia per un’ora. Silenziose e quasi immobili, ma solo all’apparenza imperturbabili. Loro di lassù, che ne sentono tante, sanno ascoltare, vedere, capire, distinguere. Loro sì, hanno cultura. E sono educate e pazienti: se lo spettacolo non vale non sbattono tra loro né corrugano la vernice, restano di ghiaccio. Succede quasi sempre. Ma non applaudono neanche se gli piace, figurati poi per convenzione o a comando, forse lo trovano volgare, o per non disturbare… Ma bisogna capirle e conoscerle, il loro legno - vivissimo - (l’alluminio e la plastica certo un po’ meno) non s’accontenta di emozioni ordinarie. Mettici poi che mal sopportano il chiasso, la confusione, le orchestracce, quelli/e che urlano nei microfoni, i watt sempre esagerati, e i politici in prima fila che - invariabilmente - “hanno fortemente voluto” la tal cosa (buonina o boiata pazzesca fa lo stesso). Situazioni così. Eh, eh, loro di fatto selezionano. Incorruttibili, mica come noi.
        Così, quando capita una serata davvero straordinaria come questa del 27 luglio (rara da ‘ste parti come il passaggio di una cometa, purtroppo), le nostre care scorticate cento persiane di piazza Bice Piacentini reagiscono alla loro maniera, con classe: invece di applaudire come fan tutti, VIBRANO. Invisibilmente. Silenziosamente. Sinceramente. Intensamente e a lungo, quando chiedono il bis. Ovvio, nessuno ne parla. Nessuno se ne cura.
        Invece io penso che i 35 brass-bandisti e Lito Fontana hanno suonato forse anche per loro. E penso anche che, se avessero potuto, alla fine dell’acustico concerto tutte le cento persiane avrebbero voluto coralmente spalancarsi - come in un flash mob - per accogliere proprio dentro le case i brillanti musicisti, il direttore e il nostro Lito Fontana, con i loro strumenti d’oro e d’argento dai nomi buffi, con i tamburi e i rullanti, i fragorosi piatti… Lito avrebbe sicuramente sbattuto la testa in qualche persiana troppo bassa, ma sarebbe stata una festa.
 
PGC     

22/07/16

Lungo il Tevere, Roma 2016. Alessandro Carbonare, Perla Cormani, Luca Cipriano in trio


Il testamento di Tito*

Si è parlato di emergenza topi a Roma ma, parafrasando De Andrè, non ho provato stupore. Di che stupirsi ancora, se i lanzichenecchi governanti ed i lanzichenecchi governati hanno avuto il sopravvento, se da quel 16 maggio 1527 non se ne sono più andati e la loro progenie banchetta sulle spoglie della città più bella del mondo?
Eppure, come una maga benevola, questa città sa far risorgere lo stupore: può accadere, quando un gruppo di persone - “Arte20” - organizza sulle rive del Tevere, sotto la collina dell’Aventino, concerti come quello dell’ “Alessandro Carbonare Trio”.
La magia è il profilo notturno delle chiese di S.Alessio e S.Sabina; è il palazzo dei Cavalieri di Malta (quello dove appoggi l’occhio alla serratura e vedi S.Pietro); è il giardino degli aranci nel controluce della luna crescente. Lo stupore è ascoltare quelle musiche così diverse tra loro e così uguali nella maestria dell’esecuzione.
La maestria, tecnicamente intesa, è il saper “governare” la complessità di uno strumento difficile come il corno di bassetto, amatissimo da Mozart. La maestria che diventa arte è quella con cui il Trio estrae dallo strumento sonorità che restituiscono al pubblico, intatti, i variegati “colori” mozartiani del Divertimento k439b n.1: gioiello architetturale per tre corni di bassetto che il Trio propone nella versione originale. L’onda dalla cresta spumeggiante dell’Allegro iniziale comincia a smorzarsi nel primo Minuetto trio per placarsi poi, delicatissima, nell’ adagio centrale; l’onda risale ancora nel secondo Minuetto trio, torna a spumeggiare nel Rondò allegro finale; porta la frescura del mare alle labbra degli ascoltatori, genera il sorriso che solo la vera bellezza sa regalare.
Impresa non da poco è anche rendere pienamente la freschezza e la modernità della Sonata per due clarinetti di F.Poulenc. A dispetto dell’immagine di autore “facile” che rischia spesso di accompagnare questo compositore, i Nostri ne hanno messo in evidenza la ricchezza e complessità, gli echi strawinskiani, debussyani (pur non amando molto Debussy) o i sapori dell’ art nègre, quasi jazz che in lui ritroviamo, fortemente pervasi del “suo” spirito francese.
Maestria è, ancora, quella con cui il Trio asseconda le dinamiche della “Jazz Suite” di Chick Corea: e qui la mente vola verso Miles Davis, Stanley Clark, Pat Metheny e tutti i grandi con cui ha percorso le tappe di una vita veramente geniale (22 Grammy Awards vorranno dire qualcosa), il cuore respira il profumo delle sue tipiche sonorità inconfondibilmente morbide (quasi latine) ma anche di quelle più astratte come nel “Solo” che Luca Cipriano estrae con impressionante maturità.
Se poi ci si stupisce ancora perché qualcuno abbia saputo scrivere ben otto variazioni (WoO 28) su un tema semplicissimo come il mozartiano ”Là ci daremo la mano” - dandoti la cifra della grandezza di un tale Beethoven - , vuol dire che questo miracolo è frutto di una bravura come ce ne sono poche in giro, e di bravura non può che trattarsi se sai convertirti nella travolgente Klezmer suite finale. Ultimo bis da standing ovation - anche per chi le detesta - per l’assolo di un Alessandro Carbonare in gran forma: ti compiaci di averlo conosciuto e già apprezzato tanti anni fa alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma – nei concerti dei “Fleurs bleues”.

Francesco Di Giuseppe

*F.De André, “La buona novella”, 1970

12/07/16

La "Sibilla" di Americo Marconi. Il senso, le presentazioni


Americo Marconi vive a Grottammare dinanzi alla costa. S’innamora fin da bambino dei lontani monti azzurri che scorge verso ovest, in fondo alla vallata del torrente Tesino. Diviene un appassionato alpinista e si laurea in Medicina; riesce a fondere i due aspetti quando, negli anni 90, è medico del Corpo Nazionale del Soccorso Alpino.
Scrive per un’urgenza interiore. Ha pubblicato Passi Sottili con Maroni Editore nel 1996 e Centuria d’amore in sms nei caratteri di Media Print nel 2000. Dopo il Diploma alla Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa di Rimini sistema La Montagna Infinita, un corposo testo sulle montagne sacre uscito con Pazzini Editore nel 2011.
Diviene collaboratore entusiasta della rivista UT nella sezione racconti brevi.
La Sibilla è il nuovo libro di Americo Marconi, edito da Marte Editrice ad Aprile 2016. Senza dubbio rappresenta il tentativo di mettere ordine in una letteratura sconfinata che la mitica figura della Sibilla ha generato fin dalla nascita.
Dai filosofi greci Eraclito e Platone, ai poeti romani Virgilio e Ovidio, agli autori cristiani Lattanzio e Agostino da Tagaste; fino al Medioevo con Dante Alighieri e Cecco d’Ascoli.
All’inizio del Rinascimento intorno alla Grotta del monte Sibilla, nella catena dei Sibillini, fiorirono le storie che sono sopravvissute fino ad oggi. Il Guerrino detto il Meschino che nacque dalla fantasia di Andrea da Barberino, cantastorie di Firenze, e Il Paradiso della Regina Sibilla un manoscritto di Antoine de La Sale, cavaliere in carne ed ossa di origine provenzale, che salì il monte Sibilla e trascrisse i resoconti degli abitanti.
Il testo può essere definito una guida sintetica: sia per muoversi nella abbondante produzione letteraria che per visitare i luoghi dove sono ambientati i racconti e le rappresentazioni pittoriche della misteriosa profetessa Sibilla.
In un ciclo d’incontri estivi denominati La Sibilla tra mare e monti sarà presentato il libro.
Il 3 Agosto a Grottammare Alta alle Logge Piazza Peretti, ore 21,30.
Il 16 Agosto a Foce di Montemonaco nel Centro tematico, ore 17.
Il 21 Agosto a San Benedetto del Tronto, Circolo Nautico, ore 21,30.

Giampietro De Angelis


Il ‘porto e dintorni’ in una collettiva della Scuola d’Arte Misoul

Il richiamo del mare è infinito ed una passeggiata nei pressi del porto non significa soltanto respirare a pieni polmoni l’aria salmastra, sentire una nuova energia fluire in ogni fibra del proprio corpo, ma avere anche l’opportunità di osservare scorci di naturale bellezza. Scenari permeati di azzurro che un artista non può fare a meno di tramutare in opere d’arte. Lo sanno bene gli allievi della Scuola Misoul, diretta da Cesare D’Antonio, che da una semplice visita al porto hanno tratto ispirazione per realizzare ben 97 opere suddivise in quadri (olio, acrilico, china, pastello, tecnica mista), sculture, fotografie, installazioni, origami, terrecotte e ceramiche, esposte in Palazzina Azzurra (9-20 luglio) nell’ambito della mostra ‘San Benedetto del Tronto 2016. Porto e dintorni’ , che successivamente farà tappa in altri luoghi simbolo della tradizione locale come la Torre dei Gualtieri (23 luglio-7 agosto), il Museo del Mare (10-29 agosto). Le opere dei 35 artisti sono in vendita ed il ricavato verrà impiegato per acquistare prodotti alimentari o buoni spesa per famiglie disagiate. L’arte abbraccia il sociale, dunque, e lo fa attraverso il talento di artisti di diversa fascia d’età, tra i quali studenti, professionisti, principianti, fumettisti, ma anche persone che nel quotidiano svolgono lavori lontani dall’arte: un ‘popolo’ eterogeneo, unito dall’amore per il bello e dalla volontà di acquisire la tecnica, che all’interno delle bianche pareti della Scuola Misoul (viale Colombo) trova la giusta dimensione per liberare la propria creatività. Condivisione e anima, dunque, come suggerisce il nome stesso Misoul, che altri non è la crasi di ‘my-soul’. Non a caso la ‘missione’ di Cesare D’Antonio, diplomato in scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma e con all’attivo un prestigioso curriculum in continua evoluzione , risiede nel desiderio di trasmettere la sua esperienza artistica agli altri tramite un insegnamento che segue un po’ le orme della bottega rinascimentale. Il risultato? Eccellente, ne è segno tangibile la collettiva ‘San Benedetto del Tronto 2016. Porto e dintorni’, nella quale è possibile ammirare l’ambiente portuale nelle sue più recondite sfaccettature. Visitare la mostra è come effettuare un viaggio attraverso gli occhi dei bravissimi allievi Anna Bartolomeo, Antonella Belletti, Simone Bianchi, Barbara Borsoni Ciccolungo, Rita Bruni, Onelia Capomagi, Luisa Carnevale, Biagio Carrano, Elisabetta Castelletti, Mario Contessi, Giampietro De Angelis,Tanya Del Bello, Stefania Di Emidio, Simonetta Ferretti, Cristina Illuminati, Monica Isopi, Sayaka Kuhinata, Marco Lanciotti, Maila Lavia, Francesco Loggi, Maria Paola Lunghi, Alessia Malatesta, Francesca Marcucci, Marcella Marri, Barbara Mascetti, Marzia Mentili, Daniela Menzietti, Sissi Mihailova, Gianna Pansironi, Simona Patrizi, Cristina Spinozzi, Irmanna Spinozzi, Lucia Tiburtini, Giuseppe Tomassetti, Giuseppe Di Stadio. Un viaggio in cui nulla è dato per scontato e dove si riconoscono anche personaggi noti del mondo marinaro, con i volti scolpiti dalle rughe e dalla fatica, con le mani giunte in segno di lavoro e preghiera. Paesaggi, barche, pesci e cavallucci marini, volti, richiami che vanno da De Chirico a Braccio di Ferro, senso del quotidiano, mare inteso come luogo di fecondità e tragedie, reti, conchiglie, e persino un ritratto del maestro Bruno Benatti con il suo immancabile berretto alla marinara. Le opere sono attualmente esposte in Palazzina Azzurra dove, a fare da corollario, c’è una magnifica scenografia di gabbiani sparsi all’interno della struttura e forieri di simpatici messaggi: i volatili, infatti, portano ‘tatuate’ sulle piume del loro corpo frasi caratteristiche del dialetto sambenedettese. Splendido il catalogo edito da Fastedit con la copertina realizzata dal bravissimo writer romano Mr.Thoms, al secolo Diego Della Posta, che ha ritratto in modo ironico Cesare D’Antonio alle prese con i simboli della nostra città. Presenti anche l’introduzione della sottoscritta, ed il testo critico di Adele Ciarrocchi che ha avuto l’intelligente idea di abbinare alla presentazione di ogni opera una frase celebre dedicata al mare. Il progetto grafico è di Fabrizio Mariani. Gli orari di apertura e chiusura della mostra sono Palazzina Azzurra (Lunedì-Domenica ore 18-24), Torrione (Lunedì-Domenica ore 21,30-23,30), Museo del Mare (Martedì-Domenica ore 18-24). L’ingresso è libero. Si consiglia di visitare la mostra e, subito dopo, fare una passeggiata al porto: guarderete il mare con occhi diversi. E lo amerete ancora di più.


Rosita Spinozzi

10/07/16

Spoleto. Festival dei 2 Mondi: PYLADE di Pier Paolo Pasolini

Un “Pilade” pasoliniano che non ti aspetti, questo di Spoleto, fatto di sorprese e contrasti. A cominciare dal contenitore: le eleganti tranquille linee neoclassiche dell’ex chiesa tardo-settecentesca di Santa Maria della Stella - oggi Auditorium - scosse dal sisma di una forma teatrale di prorompente fisicità e dionisiaco furore. Poi il pubblico mediamente agé, mediamente borghese, mediamente… medio, combattuto tra interesse, curiosità, disagio; non si è molto abituati ad integrali nudità teatrali e ad espliciti amplessi mimati a un metro da te (il cinema è altra cosa), né al pasoliniano teatro di parola recitato in inglese senza un rigo di sottotitoli italiani (un Festival mondiale - e non di un mondo solo ma di 2 - non dovrebbe incorrere in certe gaffes organizzative). Così il pubblico finisce per essere, di suo, un piccolo spettacolo: disposti sui quattro lati del “ring”, ognuno ha davanti sia la scena che le facce degli altri e, con esse, la sorprendente tavolozza delle più disparate espressioni…
Poi il finale che è, anche questo inaspettatamente, una standing ovation che non richiede l’alzarsi in piedi perché lo siamo già, gli attori ci hanno trascinati all’aperto, sul sassoso sagrato dell’ex chiesa e qui consumano gli ultimi travolgenti minuti, dopo quasi due ore di spettacolo e sudorazione (la loro) a ettolitri.
      Già appena seduto, il pubblico ha avuto il suo da fare: ghermiti, alcuni, dagli attori e portati sulla scena in uno scatenato girotondo/tarantella/ballo-in-piazza (armeggiare con la fotocamera come ne andasse della vita si rivela un’ottima via di fuga…). Loro fanno buon viso e partecipano, finchè ricompostisi tutti, tutto inizia.
      E il Pilade furens di Pasolini ci irrompe addosso con la provocatoria modernità del suo disperato profetismo. Pur se intuiamo nell’inglese concitato e velocissimo una traduzione non proprio fedele (“almost self-parodie” la definisceimpietoso il New York Theater Blog dopo il debutto del dicembre 2015 a Broadway), l’azione scenica lascia intatta, nella densità dei dialoghi e nella esasperata fisicità, la suggestione degli archetipi classici,  metafora potente della contemporaneità nel teatro pasoliniano.
    Sulla scena di oggi, Oreste e Atena, Elettra e Pilade si muovono impetuosi come rapide di torrente in piena verso il destino segnato. Oreste assolto dal matricidio e vittorioso in Argo è – con il culto di Atena, la Ragione, che qui imporrà – il potere incurante di altro che non sia se stesso e volto, nella sua razionale ferocia, al futuro, alla ricchezza, al progresso per quanto falsi e illusori. La sorella Elettra, il mite Pilade sono gli sconfitti, disperatamente uniti nel loro protendersi al passato, “l’unica cosa che noi conosciamo veramente” perché “è il ventre di nostra madre la nostra meta”.
     L’Oreste di Tundhe So e il Pilade di Marko Mandić si fronteggiano sulla scena con rara plasticità e inarginabile forza; il militaresco pastrano dell’imponente Oreste contrasta con la nudità inerme dell’apollineo Pilade, e il grido e la bestemmia di quest’ultimo suggellano la solitudine della sua sconfitta e della sua diversità. L’esilio è il suo destino, la città lo ha condannato e lo allontana da sé, ad essa Pilade lancia l’anatema della sua ribellione impotente. E’ questo il senso della nostra uscita collettiva: Pilade/Mandić va incontro al suo esilio e si congeda da noi uscendo dal perimetro del sagrato. Finalmente vestito, ora (la città si turberebbe…), e inseguito dagli applausi.
     Due ore circa, difficili e intense, che ci hanno provocato e sollecitato e soprattutto mostrato che il grido di Pasolini/Pilade  è più che mai vivo e ci scuote e ci interroga.
Ora sì, siamo pronti a perdonare lo sconcerto iniziale, l’assenza di sottotitoli, la cattiva acustica, perfino la lunga attesa sotto il sole giaguaro del pomeriggio davanti al portone incomprensibilmente sbarrato. Sciocchezze.
Più difficile perdonare lo spostamento d’orario con effetto domino, oggi, di alcuni degnissimi spettacoli, sacrificati alla partita della milionaria Italietta germanicamente calciata.

Sara Di Giuseppe

08/07/16

Spoleto. Festival dei Due Mondi. 6079 SMITH da 1984 di George Orwell. Regia di Tim Robbins


You must be precise! Devi essere preciso! urlano ossessivi i quattro agenti della Psicopolizia dello stato di Oceania al prigioniero Winston Smith. Sono stati trovati il suo diario e le annotazioni ostili al Grande Fratello - lo Stato - e il “Libro” (Teoria e Prassi del Collettivismo Oligarchico), giunto avventurosamente nelle sue mani, dell’odiato dissidente Emmanuel Goldstein,: l’accusa è di complotto in complicità con l’amata Julia, ovvero 9752 Larson.  Anche lei arrestata, separatamente interrogata in una delle prigioni del MinAmor, Ministero dell’Amore.

      E’ la “Settimana dell’odio”, e inizia da questo punto del romanzo di Orwell l’adattamento teatrale diMichael G. Sullivan, con la regia di Tim Robbins e i magistrali interpreti della The Actor’s Gang.
      Nessun palcoscenico, il pubblico delimita come un ring i quattro lati di una scena nuda. In alto lo schermo per i sottotitoli italiani, sul quale un acquoso mobilissimo occhio si alterna al logo INGSOC del “Socialismo inglese”, Socing nella neolingua di Oceania, la prima delle tre potenze totalitarie - Eurasia edEstasia le altre due - in cui è divisa la Terra nell’Anno non tanto Domini 1984.
Sull’interrogatorio violentemente concitato plana a tratti, cavernosa, la voce fuori campo del Gran Fratello, mentre i quattro agenti (poi cinque) della Psicopolizia infieriscono sul citizen 6079 in una tortura psicologica che sarà poi anche fisica: tra i minacciosi tiratissimi abiti neri dei quattro impomatati, miseramente risaltano il sommario abbigliamento di stazzonatissmo bianco e la sconvolta capigliatura di 6079 Smith.
      Nel crescendo quasi intollerabile di pathos, la parola e l’azione delineano sinistramente gli ingranaggi di un Superstato che gestisce ogni anfratto del comportamento e del pensiero. Le sue armi: gli slogan del Partito e il costante spionaggio tecnologico dei cittadini; la mistificazione del presente e la falsificazione del passato ad opera del MinVer, Ministero della Verità (“La menzogna diventa verità e passa alla storia”); perfino il mutamento del linguaggio e la formazione di una neolingua semplificata ed elementare che, ostracizzando i vocaboli con possibili sfumature eterodosse, inibisca la possibilità stessa di formulazione di un pensiero critico individuale.
      Visionaria profetica attualità di Orwell, che adattamento e regia hanno acutamente centrato. Il Libroclandestino nelle mani di  Smith al momento dell’arresto, manifesto dell’opposizione del dissidente Goldstein (contro il quale si indirizza la collera di massa nell’adunata dei Due Minuti di Odio), gioca sulla scena - come nel romanzo - il ruolo chiave di disvelamento dei meccanismi totalitari. 
Nel Socing di Oceania la guerra perpetua è funzionale tanto all’obiettivo economico di “continua riduzione dei beni di consumo” e all’esaurimento del surplus di risorse, quanto al controllo sulle masse, mantenute in uno stato psicologico di isteria bellica e di odio perenne (“…l’oggetto della guerra […] è quello di mantenere intatta la struttura della società; questo è il vero significato dello slogan del partito: La guerra è pace”); le masse sono incapaci di ribellione poiché ignare della loro condizione di schiavitù (“L’ignoranza è forzauna società gerarchica è possibile solo se si regge sul fondamento della povertà e dell’ignoranza”); la falsificazione della storia, infine, fa sì che la memoria storica collettiva coincida la propaganda e con l’ottica del Partito Unico.
      L’afflato premonitore dell’incubo orwelliano è centrale nell’adattamento di Sullivan: “Nel nuovo millennio - osserva questi - siamo indotti a pensare di essere sotto costante minaccia da parte dei terroristi, degli stranieri, degli emarginati, del ragazzo nel drugstore o del bambino di colore all’angolo […] e il messaggio che passa è: devi avere paura, molta paura”.
      Robbins, da parte sua, ha ormai “adottato” Spoleto e ancora una volta ci offre l’impegno civile e politico del suo teatro, la riconosciuta qualità della Actor’s Gang, la capacità di “restituire al palcoscenico la sua funzione di luogo sacro”.
E noi guardiamo con occhi un po’ cambiati il mondo lì fuori; l’intima contraddizione di un evento che promuove vera cultura ma ostenta ovunque i segni del potere e del privilegio, a partire dall’invadenza di sponsor d’élite come Mercedes, fino ai biglietti per i grandi spettacoli, a prezzi da…Mercedes. E allora dieci, cento di questi Robbins, se provocando e graffiando restituiscono la bellezza del dubbio e dell’indignazione alle nostre coscienze dilavate dai Grandi Fratelli del nostro misero presente.

      Big Brother Is Watching You!

Sara Di Giuseppe