Umberto Curi potresti ascoltarlo “dall’alba al tramonto” senza stancarti né mai annoiarti. Proprio come nelle rappresentazioni tragiche dell'Atene classica: evento insieme religioso, sociale, civile, vi assistevano dall’alba al tramonto in sedicimila (quanti ne conteneva il teatro) delle circa ventimila anime che la Atene di allora contava.
Peccato invece, per noi, doverci accontentare di un’ora sola in compagnia del filosofo, nella giornata prima della Carboneide di Ortezzano. Non siamo certo in migliaia: non c’è la sagra della porchetta né della tagliatella alla papera.
C’è solo Umberto Curi, col suo parlare amico che limpidamente estrae dalla sapienza antica la riflessione sui grandi temi dell’esistenza che trovano la loro definizione nella cultura classica: anche se la conoscenza di questa, l’interiorizzazione dei suoi valori sono per noi ancora “una specie di mèta che non abbiamo raggiunto, una sfida non compiutamente risolta".
Che sia vero, ce lo dice tutto quanto vediamo e sentiamo intorno, non solo qui e non solo oggi: l’inutile prosa dei politici chiamati a parlare e l’abusata retorica dell’abbiamo-fortemente-voluto e il conformismo di un’esibita sensibilità culturale e il vezzo di nominare dal palco uno ad uno (!) tutti gli sponsor; ce lo dicono le sagre mangerecce le cui locandine sconciano i muri della tranquilla piazzetta insieme ai totem non rimossi di una (fu) campagna elettorale, a un passo dalla sede stessa del Comune cui forse non compete la cura del decoro urbano; ce lo dice l’assenza di giovani e giovanissimi – salvo i volontari in servizio al Festival – che contraddice il proclamato coinvolgimento delle istituzioni scolastiche.
Per un’ora proveremo a “rimuovere” tutto questo. E’ nella conoscenza dell’antico, dirà Curi, che il presente può dare compimento alla riflessione sui temi grandi del nostro vivere. Tra questi la Morte, e poi la Poesia, e la Filosofia.
Non teme la morte, il mondo classico, e perché essa non sia soltanto subita nella sua inevitabilità ma anche ambita, la cultura antica ricerca i presupposti che le diano una sorta di “qualificazione”, che la rendano kalè thanatos. Una preziosa chiave di lettura in tal senso ci si offre nella narrazione tucididea della guerra del Peloponneso. Nel suologos epitaphios, nel discorso che celebra i caduti al termine del primo anno di guerra (429 a.C.), Pericle compie la scelta più complessa e impervia: davanti ai catafalchi degli uccisi, davanti al lutto e al dolore dei famigliari e di un’intera città, sceglie di fare appello alla superiorità non militare ma culturale e civile del mondo ateniese, a quella superiorità che è generatrice a sua volta di amore per il sapere e di amore per il bello, quest’ultimo mai disgiunto dal bene e dunque anche morale perché ciò che è kalòs è sempre anche agathos.
E ancora, del valore universale di Poesia e Filosofia ci parla il mondo antico, e lo fa attraverso il pensiero aristotelico: la Poesia in quanto mìmesis pràxeos, attività mimetica, si innalza al di sopra della Storia e della stessa Filosofia. La poesia sa esprimere ciò che la parola filosofica non è in grado di rivelarci, ed essa attiene all’universale nel suo dirci come le cose potrebbero essere, laddove la Storia può dirci solo ciò che è stato ed attiene per questo al particolare.
Le radici di dinamiche culturali e sociali che giungono fino all’oggi, il seme di linguaggi - come, perfino, quello cinematografico - sono rintracciabili, dirà infine Curi, nella riflessione aristotelica sulla grande tragedia attica. Rito collettivo che interrompeva perfino la consueta segregazione femminile, esso chiamava alla partecipazione tutta la popolazione cittadina e lo spettatore vi apprendeva, attraverso la rappresentazione visiva, le nozioni di base del suo vivere, in un’ intima connessione tra vedere e conoscere che è poi l’aspetto fondamentale della poiesis.
Emblematico l’Edipo re sofocleo, che ha già in sé i meccanismi di una perfetta detective’s story: il mitologema, il fatto originario è già compiuto quando la tragedia ha inizio, e l’indagine di Edipo è un percorso a ritroso - in… flashback - che lo precipita nella catastrofe finale.
E’ qui condensata tutta la contraddittoria duplicità della condizione umana: Edipo è contemporaneamente salvatore (della sua Tebe, dalla pestilenza) e colpevole (uccisore del padre, il re Laio, e causa egli stesso della peste ). Il suo “egò fanò” è, insieme, un “io farò chiarezza” e, seppur inconsciamente, un “io mi rivelerò” (come avverrà alla fine).
Edipo, detective e colpevole, è prototipo della impossibilità per ciascun essere umano di essere uno solo, emblema di quella endiadi drammatica di cui ciascun essere umano è soggetto spesso inconsapevole.
Non siamo qui dall’alba, e manca ancora tanto al tramonto, ma Curi chiude ora - quasi di netto - il poco spazio che gli è “concesso”, compresso tra le prove musicali e i soliloqui istituzionali del prima e le opinabili impellenze “degustative” del dopo. Come molte altre volte, deliziandoci nell’ascoltare Curi ci chiediamo a che serve, se il presente è, amaramente, questo.
Sara Di Giuseppe