Non molti animali sono fortunati come le mucche di Campo Imperatore de L’Aquila, che hanno ascoltato oggi le armonie dei Pink Floyd; e anche, attentissimi e non visti c’erano tutti gli altri proprietari di quelle praterie, il capovaccaio e l’aquila reale e la vipera dell’Orsini e il grifone e il nibbio reale e il lupo e il gipeto e l’orso marsicano. Oltre alle plebee capre e pecore, e ai cavalli che pazienti subiscono gli improvvisati cavalieri. Poi i cani spettinati.
Compare minuscola, da lontano, la tensostruttura, come precipitata dallo spazio tra il verde e l’azzurro del “piccolo Tibet”, ma cresce via via che il camminare lento fra l’erba ce l’avvicina: e dopo li ospiterà tutti, i settottocento spettatori che i Quindici dell’Officina Musicale de L’Aquila hanno richiamato e che inchioderanno qui per due irripetibili ore. E a cui il “Grazie per l’accoglienza rock” del direttore strapperà boati di applausi.
In rigoroso classico nero, i musicisti, prestati al genio dei Pink Floyd da una trascrizione di genio per 15 strumenti d’antan. Perché dei classici ha l’intramontabilità, quell’ardito “dialogo tra musica sinfonica e rock” che il gruppo inglese realizzò allora con poderosi effetti orchestrali: ineguagliate creazioni e mito senza tempo, quarant’anni dopo Mark Hamlyn ne estrae una sua superba sinfonia per strumenti “veri”. Ed ecco gli ottoni in parata e il violoncello, il contrabbasso, i violini e il sax e il flauto e il corno, insieme a tastiere e percussioni, per la rivoluzionaria orchestrazione sinfonica (con tracce di “contemporanea”) della suite Atom Hearth Mother e del pazzo diamante di Wish You Were Here, con le sue quattro parti di atmosfere acide e stranianti.
Ben altro che una scontata cover che molti saprebbero oggi elettronicamente riprodurre (non c’è gara, tra l’elettronica attuale e quella primitiva di allora): questa è operazione potente di rovesciamento che dal moderno estrae il classico e ri-creandolo lo consegna, nuovo e antico, alle emozioni, ai sussulti, alle tempeste dell’oggi.
Giovani di oltre 40 anni fa noi, mescolati nell’uguale piacere ai giovani di adesso, sopportiamo pure gli applausi fuori tempo di molti “tifosi”, ma neppure il bravo direttore se ne smaga, al massimo un sorriso affettuosamente sconsolato (tiremm innanz…) nel bonario faccione abruzzese… In un momento qualsiasi di queste due ore stregate il tendone potrebbe alzarsi in volo, entrare in orbita e noi con lui e non ce ne accorgeremmo, anzi forse è pure successo: la nebbia ha mutato silenziosa i contorni e i colori, e uscendo niente sembra uguale, fuori e dentro di noi.
Ma mucche & C. sono sempre là, solidamente reali, le pance dondolanti: hanno ascoltato, quietamente emozionandosi, hanno ospitato educate musica e musicisti scansandosi un po’ - riconoscono la bravura e l’incanto - e ora si riprendono lo spazio, si affacciano sicure sul ciglio della strada, tolleranti e sagge ci guardano ripartire. Abbassiamo i fari per non spaventarle, ma le luci neanche servono, ora che più in basso la nebbia s’è sfilacciata in brandelli di sciarpe intorno alle montagne, ed è così luminoso di sera questo cielo d’Abruzzo.
Sara Di Giuseppe
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