Cerchiamo
di metterci d'accordo sui termini, altrimenti corriamo il rischio di
non capirci. Dotiamoci di un codice linguistico-musicale condiviso,
sennò ognuno sfarfalla come meglio crede. Il Jazz è il Jazz e,
nonostante tutte le semplificazioni che ci piace fare per inquadrarne
generi e tendenze, resta la musica regina dell'improvvisazione: dato
un mood, ognuno contribuisce ad arricchirlo per come può e
soprattutto, per come sa. Onestamente, sinceramente, con il cuore in
mano, diciamo senza usare metafore distorsive, che il Jazz degli
standard e degli schemi prefissati ci ha cordialmente (mica tanto)
annoiato. Vecchio e ripetitivo, quel tipo di musica nel quale o
emerge la linea melodica o non vale nulla, sta alla creatività come
lo stilo alla bic, un salto nel tempo di svariate decine di anni,
forse qualche secolo. Cos'era il Jazz fino a qualche anno fa? Uno
schema, fisso, immobile, ripetitivo fino all'ossessione. Lo
traduciamo? Bene. Pianoforte, sax o tromba, contrabbasso, batteria,
per ricominciare subitaneamente, con batteria, contrabbasso, sax o
tromba, pianoforte con relativi assoli di qualche minuto, tanto per
far respirare gli altri. E mentre in America il Jazz compiva passi da
gigante, in Europa e in Italia, si continuava sempre e per sempre,
con quello che avevamo imparato ascoltando dischi o qualche concerto
nei pochi locali “illuminati”. Se non si capisce che oggi una
qualsiasi band che si possa definire tale, è composta da solisti e
non da accompagnatori, si comprende benissimo perché il Jazz proposto
da Jeremy Pelt e dal suo quartetto, ha esaltato pochi e deluso molti
altri. Perché un tipo di musica che non si presta a tutte le
orecchie abituate a Fedez, può anche annoiare fino al sonno che
arriva violento e fa fuggire alla fine della prima parte del
concerto. Questo Jazz è un diesel, per viaggiare veloce occorre che
il motore si scaldi, bisogna ascoltare e vedere i musicisti fare la
propria parte e, se qualcuno ha avuto la fortuna di suonare uno
strumento musicale, cogliere quegli aspetti che ai più è negato:
vietato insomma l'ingresso ai suonatori di campanelli, citofoni e
clacson.
Jeremy
Pelt è un trombettista di levatura mondiale, non lo diciamo noi ma
chi ne sa molto di più. È stato ed è, negli ultimi cinque anni, la
“Rising Star” di Downbeat Magazine, nonché concertista di fama
con Frank Wess, Ravi Coltrane, Frank Foster e tanti altri. Parliamo
di calibri e non di mezze calzette. Suona una Harrelson nera, modello
Summit, che gli hanno cucito addosso, fatta su misura per lui e si
sente. Pelt non indulge in vibrati, evita accuratamente di scaldare i
cuori profondendo note secche e decise, più da trombettiere
dell'esercito americano che da jazzista ruffiano. Non ha nessuna
voglia di giganteggiare anche se in qualche momento, la tendenza al
virtuosismo è lapalissiana. Capisce perfettamente di essere
circondato da solisti altrettanto bravi (altro che “quattro
ragazzotti presi a scuola”), e si mette al servizio della musica
pur dandole il suo stile. In First Touch ci ha letteralmente
rapiti, non sapevamo dove sistemare le terga sulla sedia né dove
guardare, perché gli altri quattro si esibivano mostrando non solo
le capacità strumentali, ma anche una grandissima raffinatezza.
Victor Gould (cognome impegnativo da sopportare), suona il pianoforte
guardando sempre lo spartito. Quando ci siamo resi conto che,
soprattutto uno, riportava due righe di pentagramma e lui suonava
ininterrottamente da dieci minuti, tutto è stato chiaro. Non ci ha
convinto nella prima parte del concerto, ma nella seconda, seguendone
le dita, ci siamo resi conto della sua bravura e del viaggiare sulla
tastiera senza stereotipi e schemi devianti. Jonathan Barber, il
drummer, il batterista, è un ragazzino. Sembra essere uscito
direttamente dalla Berklee School di Boston (forse per questo il
“ragazzotto” di cui sopra ascoltato da uno spettatore), invece è
un batterista conscio del suo valore, della sua potenza, dell'estrema
abilità e agilità che ne contraddistingue i movimenti. Qualche
assolo in più ma strameritato. Vorremmo segnalare l'uso delle
spazzole in First Touch, qualche batterista nostrano ha
impiegato anni per usarle nello stesso modo. Jacqueline Acevedo è la
percussionista colombiana del gruppo, la ricchezza aggiunta, il
surplus musicale della band. Il suo è un lavoro instancabile di
cesello, di intrusioni studiate e mentalmente pianificate, di quei
tocchi che nell'economia di un brano Jazz, rappresentano non una
riempitura ma un completamento. Non c'è Vicente Archer, il
contrabbassista di colore è stato sostituito da un bianco, tanto
che, quando i musicisti sono entrati in scena, non ci riportavano i conti e lo
avevamo scambiato per l'occhialuto manager della band. Invece, Joshua Ginsbourg, si è rivelato un bassista di gran valore fino a
comporre, con la batteria e le percussioni, una base ritmica di
prim'ordine, aspetto che in Cry Freedom è emerso in tutta la
sua virulenza.
D'accordo
sul codice linguistico-musicale, aggiungiamo che la grandezza del
Jazz è un dato di fatto. Peccato per chi, nonostante l'esecuzione
pressoché perfetta, si sia lasciato andare al sonno ristoratore. Il
Cotton Jazz Club di Ascoli Piceno, in questo caso, non rimborsa i biglietti.
Massimo Consorti
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