Capita di rado che il romanzo si sposi col teatro (normalmente accade col cinema, e gli esiti sono spesso infausti).
Il teatro di Di Bonaventura è una di quelle preziose rarità. La grande narrativa che con lui si fa scena assume voce e gesti e moti che ti inchiodano come talvolta fa la pagina scritta, quando ti risucchia al suo interno e sei suo, e non sai più lasciarla.
L’attore-solista (“questo” attore) e il testo: quanto basta perché le figure di quella Comédie Humaine che è “Canale Mussolini” balzino dal romanzo con la forza di altorilievi su un nudo fondale.
L’epica del romanzo si intreccia alla memoria dell’attore, che di quei tempi tragici ha scolpiti in mente i racconti famigliari intorno al fuoco (“ce le sentiamo un po’ addosso, queste reminiscenze di guerra e di morte”): il nonno ucciso in guerra in Macedonia, la violenza di un’Italia miserabile che non può assolversi, il sangue sparso senza ragione o soltanto - ed è la stessa cosa – perché “Ognuno ha le sue ragioni”, come nel romanzo risponde Adelchi, tornato dalle atrocità italiane in Abissinia - le stragi, l’iprite, la ferocia - in un discorso “pieno di sangue” e vuoto di senso, al candore del nipote che lo interroga.
Italiani brava gente un cavolo, dirà Di Bonaventura.
La famiglia padana dei Peruzzi, al centro del romanzo, è come moltissime altre danno collaterale della nuova politica economica di Mussolini nel ’26 (la “quota 90”): rovinata dalla perdita di quei terreni a mezzadria che erano "industria a mano" e trapiantata con migliaia di altri “cispadani” - nel Lazio, in quelle Paludi Pontine che il fascismo iniziava a bonificare, nostrano Eldorado e Terra Promessa, da nessun dio benedetta.
La narrazione ha la plasticità della sceneggiatura filmografica, e come l’epica omerica è anche catalogo enciclopedico e compendio di saperi: dà conto con minuzia descrittiva - sorta di moderno scudo di Achille - di luoghi, ambienti, lavori (i razionali poderi dell’Opera Nazionale Combattenti, il Podere 517 della famiglia Peruzzi), perfino della costruzione del principale canale della bonifica, il canale “Mussolini” (di cui non ci viene risparmiata neppure la composizione dell’asfalto!); ricostruisce la marcia dal nord verso il sud, attraversamento di un nostro Mar Rosso da cui germinerà la nuova popolazione “veneto-pontina”; modella i riti di un lavoro duro e ostinato perché la terra deve imparare ad essere fertile. Intorno e dentro vi è la Storia: le guerre del Fascismo, la sciagura e la follia del potere, la tragedia di un’epoca e di un’umanità travolte.
L’attore-solista assume su di sé l’io narrante della storia, e il linguaggio adotta le cadenze e i dialettismi di una popolazione tanto simile alla sofferente umanità verghiana quanto da essa geograficamente distante.
Mimesi poderosa che trasforma l’attore nell’uno o nell’altro personaggio-chiave: è lo zio Pericle che con l’altro zio Temistocle giunge a Roma in bicicletta - una settimana in bici - per parlare col Rossoni (“siamo i Peruzzi di Codigoro”) e tutti e due finiscono in cella, pestati; è Adelchi che spara all’impazzata quando vengono a prendergli gli animali (perché ai Peruzzi, se gli tocchi quella piega dell’anima, quella piega si apre…); è il coro solidale delle famiglie dove i figli nascono a frotte perché si è poveri (“Per la fame. Siamo venuti giù per la fame”); è la nonna che sogna un manto nero, annuncio di sciagure, ogni volta che si compie un atto contro Dio; è la schiera delle sorelle e delle donne unite nella condanna di Armida, bella e poetica creatura segnata dalla colpa (“putana” e “bruta spórca maiala”).
L’attore diviene per noi un tutt’uno con quel filò che è grande narrazione e dramma corale: sulla scena egli è al tempo stesso gli uomini e le donne, gli animali e la terra, gli alberi e il paesaggio, gli spietati e i deboli, i vincitori e gli sconfitti, quelli che “la fiumana del progresso […] ha deposto sulla riva dopo averli travolti e annegati”. Perché “ciascuno […] ha avuto la sua parte nella lotta per l’esistenza” (Verga).
Volano le brevi due ore e il filò si conclude ormai; ma non vogliamo, ancora ci inchioda la narrazione, e l’attore ci attrae generoso con una delle scene più incredibilmente “dantesche” del romanzo: quella di Armida, moglie fedifraga del valoroso Pericle, la peccatrice che parla con le api - con le quali vive una simbiosi totale (“camminava per i campi col suo pancione e le api dietro”) - che è da queste salvata sul terreno zeppo di mine dove la ferocia degli uomini la spinge.
L’attore è ora egli stesso un’Armida di caravaggesca potenza, che muove un piede alla volta e le api la precedono e con le variazioni del loro strepito le fanno da metal detector; che, attraversato l’inferno, perde le acque, e le api sapienti su di lei ad asciugarle le gambe; che sotto l’albero, sfinita, partorisce il figlio della colpa, abbandonata dalla pietà degli uomini e circondata dalle api compassionevoli che avvolgono di se stesse il nudo neonato in un’amorosa calda coperta.
Sacra rappresentazione, narrazione, spettacolo: una serata che ci rigira l’anima. Con questo Pennacchi, con questo Di Bonaventura.
Sara Di Giuseppe
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