Serata
particolare, questa organizzata dal Cotton Lab nel suo “ridotto”.
Particolare perché a noi riascoltare la timbrica particolarissima
del mitico “Rhodes” della Fender piace da matti e perché,
l'esperimento di Paolo Di Sabatino con il fratello Luca (Ben Dover),
esperto, fautore, produttore ed esecutore di musica elettronica ci
intriga. Immaginiamo, in chiave Jazz, quello che altri musicisti, dai
Van der Graaf Generator ai Popul Vuh, hanno dato al Rock
contaminandolo con la musica elettronica. Un esperimento alto,
insomma, in grado di offrire una chiave di volta all'asfittico
panorama musicale italiano contemporaneo. Ci sono dei momenti, quando
andiamo ad ascoltare un concerto, che il bagaglio delle ore trascorse
in compagnia della musica torna prepotentemente a galla, e i
riferimenti storici e stilistici diventano inevitabili. Sarà che
nella vita abbiamo cercato di non farci mai mancare nulla dal punto
di vista delle novità, ma oggi, delle eclettiche contaminazioni di
qualche tempo fa, sentiamo funebremente la mancanza.
L'impatto
con la presentazione di “Orbits” non è stato dei migliori. Al
posto del Rhodes c'era uno Stage della Nord e questo già, ci ha
leggermente indispettito. Volendo fare un paragone, sempre relativo
alle tastiere, è come se a Brian Auger o a Keith Emerson avessero
messo davanti un Farfisa invece dell'Hammond, Leslie compreso. Non è
solo una questione di suono, di sound, ma soprattutto di impatto
emotivo con uno stumento, il Rhodes, che ha fatto la storia delle
tastiere soprattutto nel rock e nel pop.
Che
nulla di tutto questo sarebbe stato, lo abbiamo intuito già
dall'inizio, dalla presentazione della serata da parte di Emiliano
D'Auria, direttore artistico del CottonJazzClub. Senza aver
ascoltato una sola nota, non appena abbiamo sentito parlare di “cassa
dritta” (il cuore pulsante della musica House), ci siamo guardati
intorno come se fossimo stati colti da un attacco improvviso di
prurigine acuta. Ci siamo rilassati un attimo ripensando alla
bravura di Paolo Di Sabatino, dicendoci: non è possibile. Ma poi i
fatti, nonostante contaminazioni “alte” come il Jazz, la
Sudamericana e la Classica, non ci hanno riconciliato con il progetto
“Orbits”. E per un po' abbiamo vagato andando alla ricerca del
cuore/senso del progetto, in poche parole ce l'abbiamo messa tutta
ma, l'operazione in sé, non ci ha entusiasmato. Siamo andati alla
ricerca allora, di altro, di punti di riferimento, di attracchi
possibili di una nave con il timone in avaria. C'è tornata in mente
la produzione della storica Motown, quella di Stevie Wonder, delle
Supremes, dei Temptations ma anche di Marvin Gaye e qualche
riferimento lo abbiamo trovato. Abbiamo scavato nei nostri ricordi
Soul, e pure in questo caso qualche risultato lo abbiamo raggiunto.
Siamo passati quindi attraverso il Sound of Philadelphia, i MSOB e
The Three Degrees, sfiorando perfino i Jackson Five, ma qui ci siamo
impantanati.
Le dita di Paolo Di Sabatino hanno continuato a
volteggiare da par loro sulla tastiera del Nord, modello Stage,
mentre Luca (Ben Dover), ha cercato in tutti i modi di fornire un
tappeto elettronico il meno piatto possibile all'abilità
riconosciuta del fratello, però non sempre riuscendoci. Difficile,
anzi difficilissimo, costruire un brano non avendo praticamente
varianti alle due armonie di base elettroniche.
Nessun
commento invece sul video che ha concluso la serata “promozionale”
di Orbits. Onestamente, dopo essere usciti lo avevamo già
dimenticato.
Massimo Consorti
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