Suonano
insieme da due anni soltanto, sotto la direzione del maestro Alberto
Vitolo, ma lunedì 31 ottobre,
nella chiesa di S.Francesco a
Ripa, a Roma, hanno mostrato
maturità e sensibilità musicale fuori dal comune: non un miracolo
di S. Francesco (che nei luoghi di questa chiesa ha dimorato) bensì
il concretarsi di un impegno e di un’attenzione alla musica da cui
è scaturito il concerto:bello nel programma, esatto nell’esecuzione,
sensibile nell’interpretazione e…tenerissimo nei volti dei
musicisti ragazzi(ni).
Perché
un concerto sia bello non basta che abbia nel programma nomi
altisonanti di compositori, se tra questi manca un raccordo tematico.
Telemann,
gli Scarlatti
e Vivaldi
hanno la giusta omogeneità (non stilistica, certo) di una ragionata
scelta “barocca” dell’ambient
da realizzare: un concerto è pur sempre una magica atmosfera e
bisogna che profumi di magia….
Esattezza
non significa solo corretta esecuzione delle sequenze di note e
accordi sul pentagramma: è anche capacità di eseguirli alla giusta
“altezza”
(e in un’orchestra di soli archi non è cosa da poco), con l’esatta
“intensità”
che faccia convivere armonicamente i suoni deboli e quelli forti, con
il giusto “timbro”
che consenta di individuare gli strumenti. Tre elementi costantemente
presenti in questo concerto: qualche minima incertezza o piccole
inevitabili sbavature d’insieme (che l’esperienza saprà
correggere) non sminuiscono la bella esecuzione di questi “pargoli”.
Il
concerto
per 4 Violini in G major
di Telemann
- il
"Vivaldi" tedesco - presenta un carattere vigoroso e al
tempo stesso ricco di umore e immaginazione. L’esecuzione, pur
lievemente “acerba”, sa
cogliere la pacatezza malinconica del “Largo”
del 1° movimento, la riflessività dell’ “Adagio”
del 3°, ma anche la brillantezza dell’ “Allegro”
e del “Vivace”
del 2° e del 4° movimento.
Il conte F. M. Zambeccari, acuto indagatore dei costumi musicali della propria epoca e contemporaneo di Alessandro Scarlatti, scrive: “E’ un grand'uomo, e per essere così buono, riesce cattivo perché le compositioni sue sono difficilissime e cose da stanza, che in teatro non riescono, in primis chi s'intende di contrapunto le stimarà; ma in un'udienza d'un teatro di mille persone, non ve ne sono venti che l'intendono” …E pensare che questi fanciulli ne hanno suonato il Concerto Grosso n.3 in modo davvero encomiabile!
Come
scrive il pianista/clavicembalista
A.Sollazzo
a proposito di Domenico Scarlatti “Le
Sonate si nutrono di una estrema libertà timbrica difficile da
immaginare legata solo al clavicembalo. […] La fantasia di
Scarlatti trascende lo strumento a sua disposizione…”.
E’ proprio quella “ libertà” che la giovane orchestra
trasfonde negli archi della Sonata
n.5,
creando un corpus compatto ma agile, articolato e mai dissonante, con
- anzi - totale rispetto della cantabilità italiana, trascinata da
un superbo Alberto Vitolo
specie nel 1° movimento.
La
sinfonia “Al Santo Sepolcro”
di Vivaldi
è di certo una scelta coraggiosa del M.o
Vitolo. Qui contano non
solo la musica (intesa come suono) ma soprattutto l’intensità
emotiva che ne scaturisce.
Il
primo movimento, col suo grave incedere intriso di religiosa
meditatività e intimo cordoglio per la Passione di Cristo, esprime
tutta la sua intensità con l’accurato dosaggio del raddoppio dei
violoncelli (rigore della tessitura quasi fiammingo), mentre il
carattere fugato del secondo movimento non impedisce ai ragazzi(ni)
di cogliere il raccoglimento profondo evocato dal breve richiamo
all’adagio iniziale, all’interno del 2° movimento stesso.
Per
tornare alla vivacità occorreva un brano forse unico nel suo genere
per difficoltà, asciuttezza e impeto: la “Follia”
di Vivaldi (chi altri?).
Genere
musicale nato
in Portogallo intorno al 1500-1600 per accompagnare danze di pastori
e contadini in occasione di un rito della fertilità – in cui i
danzatori portano sulle spalle uomini vestiti da donna - la Follia,
pur depurata in funzione del lento e maestoso incedere delle
celebrazioni della corte di Francia, in Vivaldi riacquista un che di
demoniaco: il crescendo di variazione in variazione sul tema iniziale
ripetuto ossessivamente (ora più lento ora più veloce come un
pensiero martellante), fino ad esplodere nei due ultimi minuti in una
percussione degli archi impetuosa ed esplosiva; il trasformarsi in un
sempre più frenetico volo di archetti sulle corde, sempre
conservando l’eleganza delle forme vivaldiane, fino all’assopirsi,
esausto il cervello, nel finale.
Realizzare
tutto questo è compito abbastanza ingrato per qualsiasi ensemble,
anche smaliziato: sentirlo e vederlo (meravigliosi i volti nello
spasmo della “furia”) così ben interpretato da musicisti
“ragazzi(ni)”, è una carezza al cuore e alla mente.
Francesco
Di Giuseppe
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