Non è solo, stasera, il nostro Vincenzo attore-solista. Pamela bravissima e giovane lo affianca con l’intensità tormentata della sua Maria Vesta, costringe oggi il mattatore - e la prorompente visionaria anarchia del suo essere oltre il teatro - nel quadrato di una lotta di anime che è “cruda come la caccia grossa” e come quella non ha vincitori.
Le buone cose di pessimo gusto - il divano-e-divano due posti usato, il tappeto similpersiano - delimitano lo spazio borghese di questa antiborghese antiteatrale Tragedia moderna - “nella terza Roma, al principio della primavera, tra due vespri” - e di questo Episodio secondo nel quale Corrado e Maria combattono il duello disperato di chi è già passato dalla parte della notte.
Lo vedremo stasera e mai più - dice Vincenzo - o forse chissà nel duemilacentodiciassette, questo lavoro quasi mai rappresentato, caduto clamorosamente alla sua prima nel 1905 a Roma - col pubblico imbufalito a gridare “Arrestate l’autore” davanti al Teatro Costanzi (troppo vasto, troppo teatro d’opera, per niente teatro di prosa) - e la cui ultima rappresentazione è di almeno trent’anni fa, con la compagnia di Arnaldo Ninchi. E del quale è difficile reperire anche il testo, se non grufolando nello scantinato del triste supermarket del libro - lo chiamano libreria - dove scovi un improbabile e solitario cofanetto Newton Compton D’Annunzio-tutto-il-teatro che ha attraversato i decenni trascolorando da Lire quattordicimilanovecento a Euro 7.80, dimezzati ora in 3.90. Ancora un po’ e ti pagano se te lo porti via.
Per noi prosegue stasera con Vincenzo il cammino nella “vicenda teatral-cosmogonica” delle guerre del secolo breve, che iniziato nella poesia rivoluzionaria russa approderà fra breve all’incredibile Gerstein - Il Vicario di Ralf Hochhuth e ai forni di Auschwitz.
La tappa dannunziana di oggi sperimenta un teatro complesso, rivoluzionario quanto quello pirandelliano, per una vicenda dalla “scarsa teatralità” su cui hanno pesato il pregiudizio ideologico e l’equivoco di un’interpretazione politica e perciò fuorviante.
Per qualcuno - ancora in tempi recenti - “manifesto d’interventismo coloniale all’insegna di Roma”, la tragedia è, al contrario, “la sconfitta dell’eroe nel mondo borghese” (G.Barberi Squarotti), il suo Corrado Brando è l’ulisside inconciliabile con quel modello societario, antitesi del superuomo, destinato al fallimento dall’improponibilità stessa del suo sogno, bruciato dalla febbre di una sfida mai domata. L’Africa è la sua malattia e il suo destino, perpetuo desìo della terra incognita, continente in gran parte inesplorato allora: gli torna all’orecchio il fischio dell’aquila pescatrice, vede i branchi d’avvoltoi e di cicogne levarsi su l’Uèbi, gli divora il cuore l’invidia per colui che è sepolto laggiù, quell’Eugenio Ruspoli che sulla via del Daua ha per monumento “un ramo secco fitto in un mucchio di terra” come la gente Amarr usa per onorare i capi.
Sente di essere “della razza dei Caboto” e non può più attendere, la “parola sepolcrale” Kalas! - basta!- degli uomini sfiniti sull’altipiano non gli appartiene: potrà solo andare avanti (La mia sete io non la estinguerò se non ai pozzi di Aubàcar ), dovrà tentare ogni strada pur di tornare laggiù, degradarsi per questo nel gioco, nel tradimento, nell’abiezione del delitto.
Sono soli sulla scena i due attori, In questa sintesi dell’Episodio secondo, il dialogo dell’amore e del distacco ha il linguaggio breve e la musicalità della poesia nel crescendo di pena, nel presagio - pareva venuto non so che autunno di sotterra - che Maria invano scaccia da sé - era un’ombra passeggera, una malinconia del tramonto… - La sciarpa rossa sull’abito nero è un fiore sanguinante: Maria è la leonessa ferita, “folle ma diversa, ferita ma non per assalire”, e la lettera che annuncia la partenza dell’amante “io l’ho baciata”, slancio di abnegazione - mi perdoni se vivo? - che la fa chinare per mettere lei stessa i libri nella cassa (… che io li tocchi a uno a uno e che te ne ricordi quando li riaprirai…), che le fa vedere - compassionevole Alcesti - tutta la tristezza sul viso di lui (Non ho mai veduto tanta tristezza in un volto d’uomo).
Nel divano che li accoglie, fusi insieme eppure già lontani, Maria narra a Corrado la visione notturna (Maria, chi ti dà questa voce?), il sogno di morte su cui insisteva quel grido alto “Perché?”, e poi il bagliore d’alba intravisto nel cielo; gli confida con quel “Non siamo più soli” la piccola vita che già batte in lei. Per Corrado è il culmine di una esaltazione febbrile, gioia incredula che vorrebbe creare la pace e la bellezza intono al tuo miracolo silenzioso. Ma c’è in fondo agli occhi di lui un errore immobile e quel bacio, Maria lo sa, “è l’addio, è la morte” (Non m’avevi mai baciata così, è il bacio terribile a cui ho pensato sempre. Ti perdo).
Col buio che s’accende in sala cala il sipario che non c’è, il ritorno della luce ci restituisce Vincenzo e Pamela vivissimi e reali nell’applauso intenso che li saluta. Per un’ora e per noi sono stati Corrado Brando e Maria Vesta: di quelle ombre, anime piegate sotto l’urto dei fati, ci hanno restituito intatte la tragedia e la poesia, la rarità e la bellezza.
Perfino quel divano & divano beige senza design sembra migliorato, come noi. (Questa gente scriveva bene, dirà Vincenzo, ma noi ce lo siamo dimenticato…)
E’ necessario ripetere […] che il Carro di Tespi, come la Barca d’Acheronte,
è così lieve da non poter portare se non il peso delle ombre, o delle immagini umane?
G.D’Annunzio, “A Vincenzo Morello”, 1906
Sara Di Giuseppe