Facile per noi, stasera, entrare - e restarci - nel clima di quella Berlino del 1942, che immaginiamo gelida (pur se la vicenda si colloca in agosto) perché gelida è la temperatura nello squallido ex deposito della Stazione Ferroviaria, spazio che il Comune di Grottammare e il suo sindaco-presunto-poeta concedono per la cultura, che qui è figlia di un dio minore.
Non bastasse la tristezza del locale, dove sediamo al gelo su sedie di plastica impilate due a due se no si spaccano, c’è anche il sinistro sferragliare dei treni-merci là fuori: l’immedesimazione è totale.
Mancano energie alla dotta Amministrazione per tener aperto il Teatro delle Energie; e l’Arancio è solo un albero, chè il Teatro omonimo dorme sonno profondo, e la Sala Kursaal con le sue precarie poltrone indurrebbe forse diseducanti mollezze, e la sala conferenze della Biblioteca Comunale vive nelle intermittenze del coma. In cotanta bellezza, i Nostri fluttuano con sprezzo del ridicolo nell’annoso onirico vaneggiare di A.N.I.M.A.-e-Grandi-Opere. Invano, per fortuna.
Eppure ci scalda, stasera, il percorso che - con Di Bonaventura attore solista - prosegue e si addentra nei destini di un secolo e delle sue guerre. Teatro testimoniale, “bocca fiammante che trangugia il mondo”; teatro spesso perseguitato perchè testimone; perché – come il dramma di Hochhuth – illumina fatti politico-storici e (scrive Erwin Piscator nella sua Nota al “Vicario”) ricorda a tutti gli interessati che era data loro la possibilità di scegliere, e che in realtà hanno scelto anche quando hanno creduto di non scegliere.
Nel materiale documentario di Hochhuth “trattato scientificamente in forma artistica, il teatro ritrova un suo compito, diventa necessario” (Piscator); e l’attore-solista stasera è il giullare, il testimone - scomodo com’erano un tempo i giullari - che dà voce e gesti ad un testo epico, scientifico, documentario e politico. Così devierà spesso come fanno i giullari - ci avverte - “in derive grottesche e satiriche” nel suo trasformistico calarsi nei molti personaggi del dramma.
Si fronteggiano, nella scena prima, Cesare Orsenigo – Nunzio Apostolico a Berlino per l’intero periodo hitleriano – e il giovane gesuita Riccardo Fontana - rielaborazione drammaturgica di Bernhard Lichtenberg, prevosto del Duomo di Berlino che di sua volontà condivise il destino degli ebrei a Dachau.
Il serrato dialogo disegna una mappa e una cronistoria di eventi che schiacciano, la cui eco sinistra scuote i severi arredi della Nunziatura.
Denunciare il Concordato della Curia con Hitler è l’accorata perorazione del gesuita, cui il Nunzio oppone “il neutro e altezzoso gergo diplomatico” di chi, pur testimone di deportazioni e persecuzioni, offre alla sua coscienza alibi e assoluzione - Come Nunzio non ne ho l’autorità… Non è di mia pertinenza… Potrei anche intervenire per gli ebrei, ma solo per i battezzati… Ah ecco il nostro bravo padre che ci porta il tè, bravo, grazie, e un po’ di torta non c’è? -
Il tratto magistrale dell’attore ne accentua la cordialità vigorosa di uomo di mondo, trascolorante dalla bonomia alla freddezza e dalla prudenza alla collera: il prelato conosce i massacri, e “Il Papa deve decidere cosa vuole, o la pace a tutti i costi con Hitler o darmi la libertà, che possa intervenire in modo risoluto… Londra parla di settecentomila ebrei, solo in Polonia… Lei sa come in Polonia si uccidono anche i preti… E Roma cosa aspetta, caro amico?...”.
Denunciare il Concordato dunque? Oh no, al contrario caro amico, Hitler ci teme, non ha torto un capello al vescovo Galen che pure ha tuonato dal pulpito contro l’eliminazione dei malati di mente! Dunque calma, calma, giovane amico. Più saggio è affidarsi al “genio della vecchia Europa”, e la resistenza scaturirà “dalle più profonde sorgenti della vita come sempre avviene in Occidente, quando un qualsiasi principio tenda a dominare in assoluto”. Più saggio, anche, è confidare nella inevitabilità per Hitler di “venire a termini per forza, sarà lui a volerlo”. Dovrà fare i conti con la forza dei cattolici, dovrà capire quello che i suoi amici, il signor Franco e il signor Mussolini, hanno capito da tempo: solo con noi, solo con la Chiesa, non contro di noi, il fascismo è invincibile.
I diplomatici equilibri della Nunziatura vacillano all’irruzione di Gerstein. L’Obersturmführer delle SS Kurt Gerstein (figura reale, “personaggio misterioso, ambiguo e abissale”, il cui nome è iscritto sul monumento alle vittime del fascismo per volere della comunità israelita di Parigi), ha la voce rotta e il parlare convulso. Ha per il Vaticano un messaggio urgentissimo, Eccellenza, un messaggio che non può più attendere, nemmeno per un giorno, nemmeno per un ‘ora. Eccellenza torno ora dalla Polonia, da Belzec e Treblinka, ogni giorno diecimila ebrei, più di diecimila, Eccellenza, vengono uccisi, gasati…
Allo scandalizzato inquieto Orsenigo - Vada via, vada a dirle al signor Hitler, queste cose, il governo tedesco ha dichiarato che non è di mia pertinenza intervenire - l’Obersturmführer oppone l’ostinata passione che scardina i silenzi - “Voi rappresentate il Vicario di Cristo qui a Berlino, e siete capace di chiudere gli occhi, voi tacete, mentre ogni ora… Vedo giungere trasporti dall’Europa intera in queste fabbriche di morte, il Vaticano deve intervenire, Eccellenza! Solo il Vaticano ha oggi il potere di fare qualcosa! Ogni ora, Eccellenza, ogni ora nuove vittime: sono fabbriche, dove si uccide. Fabbriche, capite finalmente! -
E’ un fiume in piena, Gerstein: le sue competenze di ingegnere e medico esperto di disinfezione gli sono valse l’incarico di procurare un metodo di morte più rapido del gas di scarico dei motori Diesel, poco pratico (i generatori si spengono continuamente) e troppo lento; impiegano anche venticinque minuti a morire, qualcuno prega, altri piangono, o stanno zitti, i più sanno già tutto, l’ODORE DEL GAS…
Eccellenza, il Vaticano scende a patti con Hitler… Se non parliamo, questo sangue ricadrà su di noi.
Invano mostra - ha già perduto - guardi qui, le prove! Gli ordini di Belzec e Treblinka per la consegna di idrocianuro; l’acido prussico vogliono da me, io appartengo ai reparti sanitari delle SS… Guardi… E’ ormai solo, e ha perso: il Nunzio ha lasciato frettolosamente la sala “…Sono intervenuto già nel ’39, mi è stato imposto d’ufficio d’evitare ogni motivo di conflitto tra Roma e il suo governo… Iddio la benedica, Iddio l’aiuti, pregherò per le vittime”.
La Taverna dei cacciatori a Falkensee, Berlino, è surreale cornice della scena seconda: accoglie nel tempo libero e al riparo dai bombardamenti gli alti gradi delle SS e della polizia tedesca. Figure - i tratti caricaturalmente accentuati dall’attore solista - che realmente “idearono, organizzarono, commisero il più grande eccidio della storia”. Conversano, sbocconcellano panini al prosciutto, giocano a bocce… (sono il male assoluto eppure giocano a bocce, dirà l’attore). Il clima è cordiale e bonario.
Vi è Eichmann, il più zelante infallibile spedizioniere che sia mai stato al servizio della morte e - così lo descrive Hochhuth - “un pedante cordialone” (diverso dall’ossessivo-compulsivo automa del processori Gerusalemme, nel filmato dell’Istituto Luce).
Vi sono esponenti dell’aristocrazia industriale della Ruhr; vi è il medico anatomista Hirt, collezionista di crani dell’Università di Straburgo (non sarà mai arrestato); e il Consigliere del Ministero per i territori occupati (“con i baffetti alla Hitler, piccolo e dimesso come un comodino da notte”); vi è il “Dottore”, col suo bastoncino di canna che usa per le selezioni ad Auschwitz, dotato di quell’affascinante cordialità che “gli faceva promettere ai bambini un pudding prima di essere gasati” (un demonio che ricavava dal suo lavoro il massimo piacere…). Si conversa con gioviale cameratismo di strategia bellica e di astuzia politica, di rivalità interne e di grandi affari, e di musica, e di tecniche per velocizzare la soluzione finale.
Dalla rilevanza scientifica delle comparazioni anatomiche dei crani condotte dall’accademico Hirt (…i nostri discendenti dovranno un giorno sapere perchè la soluzione del problema ebraico fosse anche dal punto di vista scientifico assolutamente necessaria), all’elogio del Concordato concluso da Pacelli - elemento d’inestimabile importanza quando abbiamo preso il potere - al rammarico che, per “quel miserabile pretaccio” (il vescovo Galen), il Führer abbia dovuto rinunciare all’eutanasia per i minorati psichici. Dialogano il conciliante Eichmann “…Prima o poi si capirà che si vuol solo liberare dai patimenti i minorati: ma abbiamo tempo e non ci costa nulla”, e l’ Incalzante industriale Rutta “Oh, signor Eichmann, costa e quanto, al governo, dover continuare a nutrire i minorati psichici”.
Si parla di grande musica (Ah la Messa in Si minore, è gioia trasfigurata!) col sensibile dottor Fritsche, lo Sturmbannführer che Hirt esorta a portargli vivi “gli esemplari per la mia collezione - le dovranno pur capitare dei crani interessanti - dopo che avrò fatto le fotografie e le misurazioni li liquideremo a Strasburgo.”
Ancora un equilibrio rotto dall’arrivo di Gerstein, in divisa grigia di ufficiale SS, affannato e in ritardo (viene dalla tempestosa sconvolgente visita alla Nunziatura).
Il suo rapporto sulla lentezza del monossido di carbonio per le camere a gas scandalizza, accende il dibattito fra Hirt (“Ma è orrendo, ragazzi, fate le cose più umanamente! Perché non sparate nel mucchio come in Russia?”) ed Eichmann (Provi lei a sparare su quaranta carri merci di gente nuda che grida. Anzi non gridano quasi più… Un simile spettacolo – anche se ha in corpo il novanta per cento d’alcool – rende insonni e impotenti, Professore, e noi qui in Europa ne dobbiamo lavorare buoni otto milioni), e poi l’impaziente curiosità: “Com’è andato, Gerstein, il tentativo col cianuro?”
La menzogna disperata dell’Obersturmführer (l’esperimento non s’è potuto effettuare, il cianuro era già andato a male, non avrebbe funzionato, è stato seppellito sotto i miei occhi…) è accolta da un incredulo Eichmann: Curioso, Gerstein, curioso, lo Zyclon B è stato provato sotto i miei occhi su seicento russi… è vero, il pomeriggio dopo alcuni russi erano ancora in vita, ma era la prima volta, son cose che non s’improvvisano con una magia, la stanza era piena zeppa come un secchio di aringhe… Oh non metto in dubbio il suo rapporto, il chimico è lei.
E’ ancora su Gerstein che si apre la scena terza - il mattino dopo - e su Riccardo Fontana: questi solo per un soffio non ha incontrato il Dottore, poco prima in visita a Gerstein, insospettito dalla strana relazione dell’ufficiale sul cianuro (“Lei s’è imbattuto nell’angelo della morte di Auschwitz”).
L’incontro con alla Nunziatura ha colpito profondamente il gesuita: la sua convinta passione (“Il Vaticano l’aiuterà. Lei e le vittime di Hitler”) si confronta col lucido disincanto del tedesco (“Da quando Londra ha dato la notizia sono passati due mesi buoni, senza che il Papa sia comunque intervenuto… Il governo polacco in esilio avrà già pensato ad avvertire il Papa direttamente… Il Generale dei Gesuiti a Roma da anni viene informato da agenti polacchi, da anni!”).
Fontana è figlio di uno dei più alti funzionari laici presso il soglio, è dunque l’ultima speranza (Signor Gerstein io le garantisco che il Pontefice protesterà). A quella speranza si aggrappa Gerstein (S’adoperi, intervenga, vada a Roma): sa che lui stesso non sopravviverà al suo compito (…di questi tempi un cristiano, se è coerente, non sopravvive), ma occorre fomentare la ribellione contro gli assassini (Sono in gioco anche le anime di quelli che sanno, e tacciono), perché ovunque - in Francia, Ungheria, Olanda - la polizia collabora con zelo ad arrestare ebrei; gli Ucraini fucilano essi stessi i loro ebrei, e dopo il massacro di diciassettemila ebrei a Majdanek hanno festeggiato ubriacandosi; in Polonia i vicini consegnano per denaro gli ebrei ai tedeschi. “I tedeschi sono i maggiori responsabili; il loro capo ha creato il progetto, ma gli altri popoli non sono migliori di questo”.
Come può Roma tacere?...
Si chiude qui la seconda delle tre parti in cui Di Bonaventura ha diviso e sintetizzato l’epico e massiccio lavoro di Hochhut. Richiederebbe ore ed ore l’integrale messa in scena di questo “testo totale, troppo vasto per le limitate possibilità del pubblico”: così lo definisce Pastorin, primo regista a credere strenuamente nella capacità, per questo “dramma storico nel senso schilleriano del termine”, di dare un senso al nostro passato, di esercitare la sua influenza oltre che nella sfera artistica, “soprattutto e finalmente in quella che parla alla vita, che trasforma la vita”.
Torneremo [martedì 7 febbraio, sempre in questo frigorifero] col nostro attore-solista a rivivere nella terza parte l’evolversi e il compiersi del dramma, a interrogarci ancora - così Carlo Bo nella prefazione - “su quale debba essere l’atteggiamento dell’uomo libero, dell’uomo intero, nei confronti del male”.
APPENDICE
Suggella la serata il commosso affettuoso omaggio del nostro poeta Giarmando Dimarti ad Athos Fileni, amico e uomo di teatro appena scomparso. I versi di Dimarti, dalla raccolta poetica Overdose per la voce del nostro attore-solista, sono il più intenso devoto saluto che il teatro e la poesia possano dare a un vero uomo di teatro e di poesia.
Sara Di Giuseppe
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