“Leggendo la poesia di Giarmando - dice Vincenzo attore-solista nel presentare l’opera del “nostro” poeta Dimarti - si è costretti a tornare indietro”: a ri-meditare la sua scrittura “inaudita”, a ri-percorrere quella “costruzione architettonica della lingua” che scolpisce il dato epico, storico, civile, morale, religioso dei Canti, e inchioda il lettore così come il vento d’uragano percuote e obbliga a fermarsi, a raccogliersi in sé, ad affrontare l’urto.
Preziosa questa serata in cui la titanica visionarietà di Dimarti ci viene incontro per voce sola e djembe attraverso il genio dell’attore e regista, lui che “pratico la carne della sua scrittura” e, lettore insaziabile e umìle (“con l’accento sulla i ”), scava l’implacabilità di quei versi per offrircene il disperato rabbioso canto “innecessario accessorio”.
Il pregio aggiuntivo di questa sera è il film, realizzato anni fa dal Di Bonaventura con l’amico Mario-il-fornaio - “ero più giovane, ero più gioioso” - per accompagnare in immagini cinque Canti fra i dieci della raccolta dimartiana “E’ tutto sotto controllo”, che della sua poesia civile è il punto più alto.
Il breve film-documento è così oggi, per il pubblico dell’Arancio, una “prima del cortile”, e il delicato equilibrio di apparecchiature d’antan su cui poggiano le sorti della proiezione crea la necessaria suspence (“Non mi tradire!”) in breve risolta: tutto funziona, artigianale ingegneria che amorevolmente assembla domestiche tecnologie e crea visioni di straniante futuribile bellezza.
Inizia qui il viaggio dentro l’epica del “cantore perverso per eccesso di abissi e per eccesso di necessità”. Immagini silenti di realtà disfatte trascorrono sullo schermo: è il ranocchio stupefatto spaesato nello spot di luce che fora il buio; è l’ape che consuma avida sul fiore il perpetuo suo vorace cerimoniale; è il vento di un “lacero giorno” che spazza l’asfalto sporco in danze circolari di cartacce e bottiglie vuote; è il “rito furibondo” dell’escavatrice, artiglio di Leviathan che abbatte muri e cementi; è l’immane scheletro di fabbrica abbandonata; ed è anche orizzonte marino, e cielo di profondo azzurro che disegna aerea la guglia d’un campanile.
Il canto del poeta sciabola su visioni di un mondo disumanato, arreso al clangore implacabile di città dissolate e di onnivori asfalti, agli scassi incessanti dei cementi; qui “nel chiassato silenzio”, contro le “murate che serragliano il mondo” precipita e s’infrange la parola poetica. Taci il tuo ciancio cantare / poeta: nel reale divenuto indicibile, il poeta assente non ha – montalianamente – lingua o parola che salvi.
Cuci le tue labbra / poeta / cuci i tuoi pensieri le tue dita la tua luce: la terra - addormentata alga vacillante - non cerca “le tue balorde sfioccate bandiere sonore”.
Nel frastuono che ogni cosa tritura e svende, nello scialo perdigiorno dell’obeso presente, non restano che luoghi “sdeputati”, dove vittime e carnefici partecipano indistinti del medesimo presagio di sconfitta (“annuso come un primate in estinzione / gli inutili rimasugli del tempo destinato”).
E dunque “non sciorinate all’aria in fretta dimentica / i segni imbecilli del vostro apparecchiato / spettacolato dolore - grida il suo Canto e suoi quattordici silenzi la Fanciulla deflorata non amata - il mio volo fu uno schianto deserto senza abisso ”.
Figure di danteschi inferni porta con sé il Canto della fame infame sete: giungono da giorni esiliati, anime profugheconfuse di fatica e di diaspora, “con un bisogno duro di fame, con un bisogno duro di sete”. Labbra incollate dai digiuni, mani a cui offrire “per sdebitarvi / il vostro pane cencioso”, ossa scricchiolanti a cui gettare “i rimasugli / della vostra guarentigia civiltà”.
Da silenzi di fosse sempre più ingorde si leva il Canto dei bambi bambini di guerra, con “scarponi tagliati ai nemici”, assuefatti già morti, voci che diseredano il mondo tra le sradiche pietraie della collera e dell’odio. “La terra ci copre per non farci sapere”. Dolente pietà che s’innalza ancora dal Canto per lo scomparso amico lontano, per l’attore tormentato addormentato - “stanco del mio socchiuso dolore indifferente” - che tragicamente ha cercato un’alba di là da tutto // senza più paura.
Nel cieco umano precipitare verso l’abisso - vuoti a perdere orgogliosi nella propria arroganza - s’innalza biblico, presago, visionario, il Canto del giorno svenduto perduto: tutto è sotto controllo, nella vita in disarmo, nell’ineluttabile precipitare di un’assente umanità verso “il giorno dopo / il dies illa quel giorno proprio quello”.
Dalle immagini filmiche torna ora ai ritmi dal vivo del suo djembe, l’attore solista generoso mai stanco. Con lui approdiamo all’incanto della raccolta dimartiana più nuova, “Il tempo che ci siamo dati”. Abbisogno di cuore diamante per scrivere ancora versi / per un alleluia di luce, scrive il poeta: e nella pena del vivere balena il seme di una speranza nuova, s’insinua un desiderio di rinascita lirica.
Perché è tempo stolto, il tempo che ci siamo dati, il nostro presente in avaria dell’umano, e noi “fummo ipocrisia confusa ai bivi della mente / fummo stoltezza mascherata di inutili libertà”. Ma batte ancora, l’animula vagula blandula, “quando acqueta lo schiamazzo / ebete del giorno”.
Batte In cerca di una “nostra sopravvissuta umanità”; batte di amaro amore errante “dopo il tempo di un lungo deserto”; batte per la sorte di uomini bui senza nome senza storia, fratelli nella acerba vita e nella morte aperta (“da quale umano avanzate / da quale angoscia della terra da quale cupa geologia / marina?”).
Batte, ancora, della speranza che mette radici impossibili e spalanca alla Misericordia “una porta diversa / come ghirlanda di luce totale e di raccolto silenzio”.
“… posso solo cadere a tutte le stazioni tremando
per un dolore ch’è mio ch’è nostro
posso solo rialzarmi e ancora cadere
sotto il dolente carico di vita calato sul mio tempo
ammucchiato come una quercia senza canto”
G.Dimarti, “se non potessi”, Il tempo che ci siamo dati, 2016
Sara Di Giuseppe
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