Che
le trascrizioni di grandi brani musicali sia indispensabile farle
bene non è un’ ovvietà: infatti Miguel Llobet e Ferdinando
Carulli sono tra quei pochi (come Busoni, Liszt, Brahms, Schoenberg)
che lavorando sullo spartito di un grande brano e “rileggendolo”
secondo i propri paradigmi, lasciavano il piacere di percepirne in
filigrana la tessitura, lo stile e l’emozionalità originari. Non è
poco in un’epoca in cui, col pretesto delle contaminazioni, si
passa dalla sinfonia 40 di Mozart rivisitata da Valdo de los Rios al
Mahler remix di Fennesz, ampliando così la carreggiata, già vasta e
sgangherata, del declino culturale di quest’epoca.
Un
grazie, perciò, all’associazione “il Villaggio della Musica”
che domenica 5 marzo ha proposto un programma incentrato sulle figure
di questi due “arrangiatori”, e invitato ad eseguirli il Duo
Scarlatti che “la rivista inglese Classical guitar ha definito come
young talented, with such a verve and precision“(1).
Talento
e - anche - coraggio nell’eseguire un repertorio chitarristico che,
spesso snobbato nel ‘900 perché considerato tardo romantico, ha
sempre mantenuto una sua particolare autonomia di altissimo profilo
nel contesto musicale generale. Operazione davvero meritoria, dunque,
consentire la fruizione delle sonorità dell’epoca - grazie all’uso
delle corde di budello – in una musica a torto considerata minore
(…sempre che si voglia considerare minore una “Recuerdos de la
Alhambra” di Tarrega: liberi di farlo ma…)
Pacatezza
e precisione le coordinate entro cui si sono mossi i due musicisti,
in quell’atmosfera intima e avvolgente che un concerto da camera
richiede. Rarità anche questa: oggi i concerti di musica da camera
si tengono per centinaia di persone (pecunia non olet!).
La
trascrizione di Llobet per la “Evocacion” di Albenitz (da Iberia)
ha reso chiaro fin dalle prime battute che l’eleganza rarefatta del
brano avrebbe richiesto proprio il sapiente equilibrio raggiunto dal
Duo: limpidezza del fraseggio tra le parti, esattezza negli scambi di
ruolo tra parte principale e accompagnamento, e nell’ alternanza
stessa - sul singolo strumento - delle corde“tre di carne” e “tre
d’argento”, come scriveva Garcia Lorca, “abbracciate da un
Polifemo d’oro”.
Uguale
esattezza esecutiva per le due romanze “ohne worte” di
Mendelssohn “trascritte” (meglio sarebbe dire “ricomposte”)
anch’esse da Llobet: accuratezza che ha reso palpabile l’aria
sofisticata e colta del sofisticato e coltissimo compositore tedesco.
Carulli,
Il secondo “arrangiatore”, non va considerato soltanto un
virtuoso, ma anche “un vero rinnovatore della tecnica strumentale.
Gli studi da lui compiuti all'inizio per ottenere il massimo delle
possibilità espressive dalla chitarra, non solo gli permisero di
primeggiare tra i chitarristi della sua epoca, ma servirono di base
per la sua mirabile opera didattica (Metodo op. 27)” (2).
Cimentarsi con le sue composizioni richiede preparazione di
prim’ordine.
Nelle
trascrizioni di Haydn (Sinf. 104 London), di Mozart (Andante e Rondò
op.167) e di Beethoven (Andante Varié et Rondeau op. 26 n.12) appare
ben visibile all’ascoltatore la sottesa filigrana dell’opera
originaria: tuttavia il compositore di gran talento, col suo
stile“legato ai modelli della scuola napoletana e con un impianto
strutturale derivato dalla musica di “galanterie” – alla
ricerca di sonorità che stimolino i cd. “affetti” (3) - modifica
totalmente la percezione delle solenni note sinfoniche della 104
rendendole più “familiari” e tranquille. Ciò che accade anche
con Mozart: pur rimanendo, il corpus, quello elegante e gioioso del
genio di Salisburgo e del suo magico contrappunto, le chitarre vi
aggiungono delicatezza e, perchè no, un vago sentore iberico, specie
nel rimando di battute del rondò: girotondo che richiama alla mente
la boda del L. Alonso.
Difficile,
con Beethoven, avere margini ulteriori di elaborazione (ci può
essere qualcosa oltre la perfezione?), eppure Carulli riesce ad
adattare le sonorità beethoveniane allo strumento a corde, che
asseconda il pacato svolgersi del movimento e i vivaci spunti
successivi al tema iniziale, e ben riesce il Duo a mantenersi
filologicamente corretto.
Con
le Sonatine di Tansman del 1953 (?) da poco ritrovate, il Duo ci
riporta nel ‘900 con una composizione “caleidoscopica” come il
suo autore (che non a caso collaborò con Ravel, Bartók, Stravinsky,
Prokofiev, Ellington): sembra quasi, infatti, che vengano suonati due
brani completamente diversi eppure con la capacità di rappresentarsi
come un unicum: la difficoltà la si può immaginare...e la bravura
la si può sentire.
E’
affidata, la conclusione del programma, alle Sonatine di
M.Castelnuovo Tedesco, il cui repertorio è inesauribile fonte di
ispirazioni chitarristiche. "È la prima volta - disse A.Segovia
- che trovo un musicista che capisce immediatamente come si scriva
per la Chitarra!". E forse la bellezza di questi brani risiede
proprio in un sentimento di rimpianto per un mondo musicale ormai
passato e al quale il compositore sente di appartenere. La
scioccamente scarsa frequentazione di questo autore si spiega con il
quasi ostracismo decretato dalla musica “ideologizzata” del
novecento (piaga del secolo breve) della scuola di Vienna e di
Darmstadt.
Suggestiva
intuizione, dunque, quella del Duo Scarlatti di accostare questo
autore “vero gentiluomo, magnifico compositore e amico della
chitarra” [Ricorderò sempre il suo spirito dolce, la sua
gentilezza e la sua generosità (4 ) scrive Ch.Parkening] ai “tardo
romantici”; ne è scaturito un concerto fedele alla propria
ispirazione etimologica di consertum e perciò di intreccio, dialogo
e, se necessario...litigio.
Francesco
Di Giuseppe
(1)
Dal programma di sala
(2)
Dizionario biografico - Treccani
(3)
rev. Robert Gjerdingen, Music in the Galant Style
(4)
Christopher Parkening "Il menestrello di Dio", Seicorde n.
66, gennaio-marzo 2001, p. 12.
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