Quasi pieno il Teatro dell’Arancio stasera, per l’ultimo degli incontri di Officina Teatrale 2016/17 con Vincenzo Di Bonaventura.
E’ di scena il grande emiliano: Ludovico Ariosto e il suo Orlando “che per amor venne in furore e matto”, Ludovico Ariosto e il suo poema poderoso policentrico polifonico di “micidiali” ottave in 46 canti.
E’ un incontenibile Di Bonaventura, il Vincenzo furens che - come ogni volta prima di calarsi nei personaggi - intrattiene il suo pubblico. Ed è fulminante lezione di teatro: quello che deve e può scardinare la noia, farsi antitetico al “teatro mortale” - nella definizione di Peter Brook - omologato e alimentato da tradizione e convenzioni; quello che può e deve essere poesia, divertimento, magia. E testimonianza soprattutto. All’attore-testimone, come al giullare, non occorre palcoscenico, qualsiasi spazio basta, anche vuoto - l’”Empty space” di Brook – per ricomporre l’unità col suo pubblico.
Ai tanti nuovi spettatori di stasera, dove siete stati finora? - chiede Vincenzo tra serio e faceto - eppure noi siamo qui da un anno, in questa attività “che ci tormenta e ci tumultua” e abbiamo attraversato autori che scuotono montagne (“leggi un verso di Dante e trema la terra”, dice). E’ che oggi Ariosto ha mobilitato un Liceo, scrutini ed esami incalzano, ineludibile il bonario ricatto dei prof, ecco allora il teatro subito pieno; nessuna illusione, intorno è ancora il deserto che conosciamo. Vi odio, scherza l’attore, per quella parte di odio che c’è in ogni amore non corrisposto.
Ma le storie dei paladini urgono, e le ottave sono un corpo a corpo che sfianca, conviene inoltrarsi senz’altri indugi nella grandezza “dei più degni eroi”, nella fallibilità del “giudicio uman”, nella favola bella su cui regna il caso e di cui Ariosto regge i fili con sapiente bonomia e grazia ironica.
Accorgetevi della meraviglia, dice l’attore-solista, della fatica assorta assoluta del poeta, del “messaggio inesorabile” che il teatro canta ancora attraverso la parola.
“Dirò d’Orlando […] / cosa non detta in prosa mai né in rima”: nel viaggio dentro la ottave ariostesche sarà stasera lo sguardo di Italo Calvino a indicare il percorso, da quella sua lettura del Furioso che prima di addentrarsi nelle parti salienti per commentarle con divertita ironia, ne ricompone la genesi.
Dalla “proliferazione mitologica” di narrazioni intorno alle guerre di Carlo Magno contro i Saraceni (contrapposizione senza tempo tra mondo cristiano e mondo musulmano) alla figura di Hruodlandus, dignitario franco ucciso a Roncisvalle, divenuto poi Roland nei cantari di gesta e, dalla poesia franco-veneta in poi, finalmente Orlando, di indubbie origini italiane ed eroe favorito insieme a Rinaldo. Intramontato patrimonio di quel “deposito culturale estremamente conservatore che è il folklore” (Calvino), rimasto vivo e presente fino ai cantastorie napoletani dell’800 e nel siciliano Teatro dei Pupi fino ai giorni nostri.
“In principio c’è solo una fanciulla che fugge per un bosco”: così Calvino, e da qui prende le mosse l’attore-solista: il suo djembe scandisce sottolinea incalza il ritmo zigzagante delle ottave ( “il movimento errante della poesia dell’Ariosto” ), le spezzature, il registro continuamente cangiante dal sublime al lirico al colloquiale al tragico; quella “discontinuità di ritmo” che, peculiare dell’ottava ariostesca, è gioco e movimento e intreccio di piani e prospettive, esatta antitesi della simmetria dantesca.
La fanciulla nel bosco è Angelica la bella: esce dall’ interrotto poema del Boiardo per entrare correndo in sella al suo palafreno nel visionario brulicante mondo ariostesco. Fugge dalla Parigi assediata dai Mori e fugge da un’orda di paladini cristiani assatanati di desiderio per lei, accecati e dimentichi - per amore o per ciò che gli somiglia - dei doveri cavallereschi ma che - fortuna della dama - girano spesso a vuoto, si lasciano facilmente irretire dall’astuzia femminile, coinvolgere in imprese altre dove non sempre fanno gran figura (fanatici, peggio dei giocatori di calcio di oggi, dirà l’attore).
Reale e magico scandiscono fughe, inseguimenti, depistaggi, in una quête cavalleresca che ha per cornice il bosco: affollato più d’un aeroporto, lì Angelica fugge e si nasconde, lì s’incrociano cristiani e saraceni, cavalli e paladini, donne guerriere e fantasmi di guerrieri uccisi, tutti inseguono qualcosa o qualcuno finendo per trovare qualcos’altro o qualcun altro.
Anche per Orlando l’impatto col “tradimento” di Angelica è esito inatteso e infausto di un’altra quête: da due giorni il paladino va inseguendo, per proseguire un duello interrotto, Mandricardo re di Tartaria, rapito dal suo stesso cavallo in corsa senza briglie. Intorno al rivo presso cui riposa in “quell’infelice e sfortunato giorno” gli alberi hanno i tronchi incisi a perdita d’occhio coi nomi di Angelica e Medoro (Angelica e Medoro con cento nodi / legati insieme, e in cento lochi vede).
Peggio gli va nello scoprire la grotta dove “soleano al più cocente giorno / stare abbracciati i duo felici amanti”: qui Medoro, l’umile paggio saraceno che la bella Angelica ha preferito a mille gloriosi paladini cristiani, non ha lesinato particolari - lirici e non - nel descrivere i piaceri goduti con l’amata.
E per Orlando che, ahilui, ben conosce l’arabo – ciò che tante volte l’ha salvato nelle incursioni oltre le linee nemiche – ogni illusione è miseramente spenta: s’era pure immaginato chissà che complicato arzigogolo d’Angelica per ingelosirlo, celando nel nome di Medoro proprio lui, Orlando. Da matti, appunto. Orribile morbo, la gelosia, ne sapeva abbastanza il poeta, se scriveva: “Credete a chi n’ha fatto esperimento / che questo è ‘l duol che tutti gli altri passa”.
Il colpo finale gli verrà dal pastore che l’ospita per la notte e generosamente vorrà migliorargli l’umore con la dilettevole storia dei due amanti ai quali ha dato poco avanti assistenza e ricovero: di come “Angelica bella avea portato Medoro alla sua villa /ch’era ferito gravemente” e di come la fanciulla dopo averlo curato e guarito si fosse ammalata anche lei, ma d’amore, e “da troppo amor costretta si condusse / a farsi moglie d’un povero fante”; e gli mostra infine, per prova, l’anello che Angelica gli ha donato partendo, in segno di gratitudine…
“Questa conclusïon fu la secure / che ‘l capo a un colpo gli levò dal collo, / poi che d’innumerabil battiture / si vide il manigoldo Amor satollo”. Orlando è steso. Fuori di sé e fuori di senno, dopo tre giorni e tre notti immobile nell’erba, il quarto giorno si strappa di dosso ogni cosa fino a rimaner nudo come un verme: “E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo / l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo; / e cominciò la gran follia, sì orrenda, / che de la più non sarà mai ch’intenda”; segue la gran furia, durante la quale svelle da terra a mani nude pini, querce, olmi, faggi e abeti come fossero fuscelli, stoppie, ortiche… S’interrompe qui l’Ariosto, perché “vi potria la mia istoria esser molesta” e la vuol “più tosto diferire / che v’abbia per lunghezza a infastidire”; e intanto che la pazzia d’Orlando infuria, il poeta trasferisce temporaneamente i suoi lettori ad altro campo d’azione dei tanti che vorticano nei 46 ricchissimi Canti.
Ritroverà il suo senno, Orlando, dopo che Astolfo salito sulla Luna, in staffetta tra l’Ippogrifo e il Carro d’Elia, l’avrà recuperato - dentro l’ampolla sigillata con tanto d’etichetta Senno d’Orlando - e gliel’avrà ricacciato in corpo: tornerà “più che mai saggio e virile” e – udite udite – liberato anche dell’amore per colei “ch’avea tanto amato” e che ora “non stima più se non per cosa vile”! Un sospetto di misoginia ariostesca…
Solvite me, dice per prima cosa il paladino ai compagni appena recuperata la favella, e quelli sentendolo parlar latino lo pensano ancora matto. Ma no, è solo una citazione di Virgilio, segno che ha riacquistato la memoria ed è tornato savio.
Anche il nostro attore-solista conclude qui stasera: il “flusso ritmico ininterrotto” delle ottave ariostesche ha sollecitato il suo djembe così come Rinaldo il suo possente destriero Baiardo.
E Ariosto ha avuto in lui l’interprete perfetto della gioia del raccontare, del disegnare l’ambivalenza stessa della vita: le creazioni fantastiche nel Furioso non sono d’altronde che specchio rovesciato di un reale dominato da apparenze e false immagini, dove altra saggezza non c’è se non la coscienza dell’inevitabilità della follia.
“Cultura della contraddizione” - già disegnata da Erasmo nel suo folgorante “Elogio” - che è cifra del Furioso (e della società del suo tempo) e di cui la figura di Orlando - l’eroe puro e perfetto, il savio per eccellenza - è emblema. Perché se nel mondo ariostesco valore e forza possono, varcati i limiti, trasformarsi in animalità fuori controllo, la follia stessa è elemento costitutivo di ogni vita così come ogni vita è errante ricerca dell’inafferrabile, tensione verso l’irraggiungibile. O forse soltanto sogno, senza certezze né valori assoluti.
Sara Di Giuseppe