Non so dove né quando, ma è come se l’avessi incontrato e ascoltato molto prima di stasera, A. O’Breskey. Forse quella volta che sostando in un villaggio sulla via per Cork fummo circondati da un nugolo di ragazzetti (di cui uno di colore) che - oltre a chiederci soldi - volevano sapere se eravamo irlandesi anche noi, per via delle decalcomanie “O’Neil” che avevamo sui finestrini. Era mattina, mi pare domenica. Da una casa vicina, da cui usciva la prima musica irlandese che sentivamo, venne fuori un tizio con la barba bianca e una birra in mano a richiamarli, un po’ incazzato. Somigliava a O’Breskey.
Due giorni dopo, che vagavamo intontiti in una di quelle tre penisole sull’Atlantico: un paesaggio grigio-verde di pecore mucche vento e pioggia orizzontale. Senza un albero. Il pastore delle pecore non si vedeva. Si sente un flauto, ci giriamo e spunta lui. Cappello grondante, camicia a quadri, barba. Tale e quale a O’Breskey.
A Killarnay c’era un Festival di qualcosa, troppa confusione. Andiamo al lago, ma faceva ancora più freddo. Fortuna l’immancabile pub, dalla facciata azzurra e rossa. Dentro, una piccola orchestra (con l’arpa!): melodie irlandesi insistenti, quasi un jazz primordiale ritmato a mo’ di taranta, e ballate struggenti, una fanciulla canta, e al piano (non coreano, ma english) chi c’è? Uno tale e quale a O’Breskey.
La mattina dopo, tagliando verso Dublino, dalle parti di Longfort, chi troviamo ad una sperduta fermata dell’autobus? O’Breskey e la sua band, con le valigie di cartone. Piove, normale. Chi se ne frega, sotto la tettoia cantano e suonano e bevono, ma dove vendono le birre? Musica alla come viene, come la pioggia, ma corroborante come il sole. Per lo più improvvisata, quindi jazz. (…)
A ripensarci, mi pare davvero di averlo incontrato una quantità di volte in quel viaggio, O’Breskey: nel Donegal e nel Connemara, a Galway e a Kilkenny, dalle parti delle famose scogliere che non ricordo il nome ma dove van tutti… Era circa il ’90, dell’Irlanda (allora povera) capimmo poco, ci stranimmo. Sembrava un depresso Abruzzo. Ci stregò però la musica.
Stasera ho riascoltato l’essenza di quella musica, imperfetta ma trascinante, animata da un personaggio “familiare” e inconsapevolmente affettuoso. Direi un amico.
Verso la fine, all’improvviso, “Buenos Aires”. Una storia vera, micidiale, che O’Breskey racconta avaramente con parole jazz (“traditional”) dal sapore di menta. Una figlia – la sua – ritrovata dopo 17 anni a Buenos Aires. Mica è finita: anche suo nonno avrebbe (dico avrebbe, mi pare impossibile) ritrovato una figlia dopo 17 anni, pure a Buenos Aires! Noi increduli, è tardi, siamo stanchi, non può essere. Pensiamo, confusi come ubriachi… mentre eccole, a cascata di ruscello, le note d’inizio di “Buenos Aires” [come poteva non comporla, dopo una vicenda così incredibile].
Ti aspetteresti un tango, invece è una lirica senza tempo, un elisir che ti colpisce all’istante. Melodia semplice, ariosa, che s’arrampica come su una liana e poi ridiscende scivolando. Note limpide, entrano e non ti lasciano: vanno e dopo un volo ritornano, pulite. O’Breskey pare turbato, le dita in salita nervose, commosse direi, spesso incerte e senza eleganza, devono “stanarli” gli accordi.
Sui bassi il tempo [un ¾ sospeso] è incostante, variabile e minaccioso come il cielo d’Irlanda, di là senti un calore malinconico, rilassato, scorrevole e squillante come a Buenos Aires.
Una lirica, dicevo, provocata da un trauma unito a una grande felicità. Perfetto per una musica da film, da ri-confezionare all’infinito, con qualsiasi strumento, con solisti, orchestre… Un incanto.
La “Ceres” è finita. O’Breskey con le sue infinite avventure se ne va. A Dublino o a Buenos Aires, ovvio.
PGC
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