Il
silenzio è una parte organica della musica (così D.Barenboim, in
un’intervista all’Universiday di Milano).
E
nel silenzio non è strano che un non credente venga coinvolto in una
meditazione religiosa - anche se in maniera, inevitabilmente per
lui, laica - che lo porta a scrutare le profondità del proprio io.
Il
suono, come il pensiero, non resta: svanisce nel silenzio da cui è
stato generato. Dal silenzio le parole di meditazione sulla
Passione, le note delle Antifone o dei Responsori, scaturiscono come
musica dello spirito e nel silenzio si spengono lasciando di sé la
freschezza e il sapore di un’acqua sorgiva.
In
onore del silenzio/spirito è giunto - oltremodo gradito - l’invito
a non applaudire al termine dei brani eseguiti: la clap-syndrome che
affligge l’esecuzione di tanta musica, non solo sacra, violenta la
mente distogliendola da quell’unicum di pensieri e sensazioni che
dalla musica e nella musica trovano compimento.
In
questa atmosfera morbidamente rarefatta la Cappella Musicale di
S.Maria in Via, a Roma, ha dato vita ad un “momento” musicale di
rara bellezza.
Continuatori
della grande tradizione di musica sacra della Cappella Liberiana,
della Cappella Musicale Pontificia Sistina, i cantori hanno eseguito
un repertorio di autori che occupano l’arco temporale di cinque
secoli: da P.L. da Palestrina a I. Strawinsky a D. Bartolucci.
Il
sentimento religioso legato alla Passione di Cristo accomuna queste
musiche, ma poiché “la musica non è mai comica, non è mai
tragica…non è mai UNA cosa: non si limita ad esprimere un
sentimento o un’idea.. perché tutto è contemporaneo e tutto
diventa uno” (Barenboim), c’è spazio in esse per unire il
pensiero religioso a quello laico.
L’ottima
e non comune scelta di sole voci liriche maschili - dall’intensa
interpretatività - avvicina il pensiero religioso del Tenebrae
factae sunt di T.L. De Victoria - col suo cupo “Deus meus, ut
quid me dereliquisti?” - e la serena donazione a Dio del “Pater,
in manus tuas commendo spiritum meum” nel Motetula de Passione di
F.Soriano, al pensiero laico dell’uomo in quel momento della sua
vicenda esistenziale in cui, reclinato capite, spira in un soffio di
invocazione di pace, pace, pace.
L’ingresso
delle voci femminili nel Plange di M.A. Ingegneri arricchisce di
sfumata morbidezza un brano evocante il giorno in cui un dio verrà
e sarà un giorno “amaro assai”, totalmente in antitesi con “quei
gridi di dolore che scoppiano talvolta nel Kyrie d’un Okeghem o
d’un Jospin. Il dolore s’esprimerà senza gridi, senza pianti,
con una melodia tenera e dolce” (Prunières).
Emerge
chiaro il quadro di riferimento per ciascuna di queste musiche: P. da
Palestrina: come ignorare infatti la presenza di un coevo della sua
statura, del quale il Coro della Cappella, nel “Pueri Hebraeorum”,
manifesta quella profonda mirabile conoscenza che solo un vasto
lavoro di acquisizione ed approfondimento può dare. Lavoro che
culmina nel finale “Popule meus” (dagli Improperia), dove la
grandezza di Palestrina raggiunge vette assolute di architettura
musicale.
Nell’intercalare
il testo latino con il Trishagion greco del “Hagios o Theos”,
del “Hagios Ischyros “ e del “Hagios Athanatos, eleisonhyma”
pur mancando ogni traccia dell’intonazione non diatonica dei
paraphonistes del VII
secolo, la presenza di questi traspare vivida tuttavia
nell’intonazione più grave – quasi evanescente - delle parti
legate al testo greco.
È
Palestrina il gigante del ‘500 musicale e della Scuola romana: con
lui “parla l’anima sola, nell’assenza del corpo e della carne”;
ed ancora: “un paesaggio d’anima, un paesaggio tutto interiore di
pietà e di fede è il terreno su cui germoglia la sua arte”
(M.Mila).
In
un contesto siffatto, ha senso distinguere la meditazione in
credenti e non? Non è pur sempre lo stesso paesaggio spirituale -
religioso o laico - quello che ognuno di noi dovrebbe scandagliare
fuori dai clamori?
Fuori
dai clamori è sicuramente il compianto Maestro D. Bartolucci, erede e
continuatore della Scuola romana. Pur nella sua fedeltà alla
tradizione del gregoriano da un lato e della polifonia di Palestrina
dall’altro, egli è riuscito a modulare all’interno di tali
contesti la dolcezza di una cantabilità (il suo stesso carattere
era “cantabile”) più vicina ai nostri tempi, instaurando una
particolare empatia con l’ascoltatore moderno nel quale sa
sollecitare emozioni e commozioni di stampo quasi “romantico”
(non inorridiscano i puristi…).
Ed
è su questo binario che si muove il suo “Crux fidelis” (dal
“Pange lingua” di S.Venanzio Fortunato – VII sec.). Il
responsorio della cristallina voce solista, cui risponde l’antifona
del coro, crea una suggestione di inimmaginabile delicatezza:
paesaggio d’anima nel più puro spirito palestriniano.
Allo
stesso modo il “Parce Domine” nel suo iniziale incedere lento e
solenne, il gregoriano “Et secundum moltitudine” e il dolcissimo
“Parce populo tuo” chiamano
ad un mistico raccoglimento cui è difficile sottrarsi anche se non
si è credenti (sempre che si siano superati gli steccati…).
Non
è solo il passato a veicolare la meditazione quando ci si accosta al
“Pater Noster” di Strawinsky.
E’
lo Strawinsky del ritorno alle origini in cui si compendia la musica
di sei secoli; è lo Strawinsky della ri-conversione alla fede in
cui “Otche nash” diventa Pater Noster: perché meditare può
voler dire anche trovare il coraggio e la forza di ricredersi.
Francesco Di Giuseppe
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