Quando
“accorda” la voce ci ricorda inevitabilmente Stevie Wonder. È
l'intro ai suoi brani che ci riporta a Someday at Christmas, e il
black-Wonder sembra agitarsi alle sue spalle. Abbiamo pensato: “Un
cover vocalist no, per carità”.
Poi ci
sono venuti in mente rifacimenti storici che hanno offuscato gli
originali. Volete mettere Yesterday cantata da Ray Charles o With a
Little Help for my Friend fatta da Joe Cocker? E se in queste
occasioni sono quasi scomparsi i Beatles, anche Stevie può fare un
passo indietro senza sentirsi implicato in un complotto di lesa
maestà.
Il
fatto è che se l'immenso Wonder avesse trent'anni di meno,
canterebbe esattamente come Tony Momrelle, quarantatreenne inglese
dall'anima black che più black non si può. Di Wonder c'è
l'impostazione, il tono della voce, le note basse e acute che
impediscono una interpretazione monocorde e portano per mano
l'ascoltatore a sviscerare stili e generi difficili da cavalcare nel
corso di una sola serata.
L'inizio
del concerto non ci colpisce (a parte i vocalizzi wonderiani) il
resto ha bisogno di rincorsa. La voce necessita di riscaldamento, di
immergersi nella solida base ritmica e armonica che la sua band gli
regala. Le corde vocali, vivaddio, sono umane e per esprimersi al
meglio hanno bisogno di andare, di dispiegarsi, di calore e
vibrazione. Keep Pushing (il brano che da il titolo al suo ultimo
CD), non si spiega come vorremmo ma il feeling con il pubblico, che
durerà tutta la serata e anche oltre, si palesa immediatamente.
È
empatico da morire, Tony Momrelle. Anni trascorsi sui palcoscenici di
tutto il mondo con Elton
John, Gloria Estefan, Celine Dion, Sade, Janet Jackson, Gary Barlow,
Andrea Bocelli, Gwen Stefani, Gabrielle, Robert Palmer, Beautiful
South e il gruppo Gospel Seven, a qualcosa sono serviti. Poi si
scalda anzi, la voce si scalda e il concerto cambia marcia fino alla
bellezza struggente di It's Real, un brano voce e piano che almeno
per un po' ci fa sognare, e di questo lo ringraziamo sentitamente.
La
band è composta da fior di professionisti, e non poteva essere
altrimenti perché con una voce come quella di Tony Momrelle, il
bravo artista sa che deve fare un passo indietro e “accontentarsi”
di accompagnare. Eppure, pur svolgendo egregiamente il loro compito,
Julian Crampton al basso elettrico, Emiliano Pari alle tastiere,
Christian Mendoza alla chitarra e Alessio Barelli alla batteria hanno
avuto anche loro, nel corso della serata, il momento per mettere in
mostra le qualità virtuosistiche delle quali sono in possesso.
Chi
più, chi meno, c'è riuscito ma dopo un concerto simile ci sembra
quasi capzioso giudicarli uno a uno, andando per amor di “pelo
nell'uovo” a ricercare gli alti e i bassi. Christian Mendoza,
messicano d'origine, quasi in ombra nella prima parte del concerto,
nella seconda è risorto a nuova vita e, perdonateci l'accostamento
sicuramente figlio delle comuni radici native, in alcuni assoli ci ha
ricordato Carlos, sì, proprio Santana anche se privo delle sonorità
latino-americane che contraddistinguono il “mostro”.
Poi,
il delirio. Invitato a ballare come se ci trovassimo in una discoteca
e gli amplificatori trasmettessero note derivate dal Rhythm and
Blues, dal Funky, dal Soul, dal Gospel, dalla House Music, dal Rock e
dalla Fusion, il pubblico si è scatenato dissacrando lo spazio
jazzistico puro e duro del Cotton Lab.
Ma
di dissacrazioni così ne vorremmo sempre, perché quando la musica è
buona e ben suonata, iniziare ad agitarsi fino all'abbozzo di danze
che hanno bisogno solo di ritmo e non di particolari coreografie, ci
sembra un gesto rivoluzionario, quasi liberatorio. Noi, purtroppo, da
sempre abituati a far ballare piuttosto che farlo noi stessi, abbiamo
assistito all'evento con l'immobilità tipica di chi apprezza ma non
può.
Un
solo bis, con un drink in mano per poi concedersi agli immancabili
selfie. Urca che concerto! Urca che serata!
Massimo Consorti
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