Ci vuole coraggio, ma soprattutto una
statura musicale bestiale come il fisico di qualche tempo fa.
The Place Between Things è quasi una
summa che nulla c'entra con la teologia però con la musica sì.
Sembra quasi che tutti gli artisti presenti quest'anno nel ricco
cartellone del Cotton Jazz Club, abbiano lasciato da queste parti un
po' del loro cuore, dei loro ritmi, delle loro influenze più o meno
manifeste.
Emiliano D'Auria, che del Cotton Club è
il direttore artistico, ci ha dato la prova che direttori artistici
non si nasce né lo si diventa per dono divino.
Dietro c'è una
preparazione da professionista serio, una capacità di saper cogliere
il senso del nuovo che c'è, un gusto innato per la sperimentazione
mai fine a sé stessa, una passione travolgente da sesto senso che,
come tutti sanno, o c'è o non arriva per caso.
Una formazione solida (Alessia
Martegiani voce, Giulio Spinozzi tromba/flicorno, Gianluca Caporale
sax/clarinetto/flauto, Massimo Morganti trombone, Maurizio Rolli
basso elettrico, Alex Paolini batteria e Emiliano D'Auria
pianoforte/rhodes/effetti elettronici, più un sound engineer,
Anthony Di Furia hanno offerto uno spettacolo che, al di là di
qualche imperfezione dovuta alla prima esibizione dal vivo di un
disco terminato da pochissimo, ha rappresentato la sintesi di un
bagaglio musicale di primissimo ordine. Tutti hanno contribuito,
diremmo scientificamente, allo svolgersi di un concerto che non ha
disdegnato momenti di improvvisazione tipicamente jazzistica, ad
altri di assoluta fusione scritta sul pentagramma e rigorosamente
eseguita.
Tutti i brani sono stati scritti e
arrangiati da Emiliano D'Auria che, lo confessiamo, ha raggiunto un
grado di maturità per molti versi inatteso. Lo avevamo ascoltato
attentamente descriverci per sommi capi quello che sarebbe stato il
risultato finale del suo lavoro, e quindi eravamo preparati ad
ascoltare qualcosa di nuovo e di “strano”, ma non avremmo mai
pensato che il blues e il rhythm and blues, si fondessero così
intimamente con il rock, il soul, il funky, il pop e lo stesso jazz e
un efficace (quanto a volte un po' esagerato) tappeto elettronico.
Conosciamo l'amore di Emiliano D'Auria per la musica elettronica e,
anche se avremmo preferito una presenza meno invasiva, resta
l'assunto che o la musica elettronica la si conosce e la si applica
seguendo regole fisse o diventa un riempitivo senza senso. E in
questo concerto, nulla è stato lasciato al caso.
Sulla formazione niente da dire, tutti
hanno fatto la parte segnata sui fogli pentagrammati (improvvisazioni
comprese e forse per questo poco trascinanti), e tutti si sono
dimostrati professionisti serissimi, insegnanti del Cotton Lab. Se
proprio dobbiamo fare segnalazioni, lo facciamo seguendo il cuore più
che il cervello. Massimo Morganti, si è dimostrato un trombone con
un altro passo, pulito, efficace, incisivo, padrone assoluto del suo
strumento. Alessia Martegiani, la cantante del gruppo e autrice dei
testi di tre delle canzoni dell'album, pur non esplodendo mai
(vocalmente parlando), si è dimostrata una “voice” vera,
intonata con il resto dei fiati, capace di salti vocali difficili se
non si hanno le sue capacità, assolutamente perfetta in No One's
Like You, brano che da ex romantici ci ha fatto vibrare più di una
corda. E se c'è un aspetto del concerto che ci ha fatto fare un
doppio salto mortale carpiato, è stata la base alla Otis Redding dei
fiati, quei tappeti sax/tromba/trombone che ci hanno riportato a
These Arms of Mine e a I've Been Loving You.
Bello, eseguito alla perfezione, il
brano che dà il titolo al disco, The Place Between Things, e quello
che ha chiuso il concerto, un gioco pop dedicato al figlio di
Emiliano D'Auria, Trokkien Pat.
Ottimo gruppo e, in attesa della Jano
Ochestra, un lavoro destinato a far parlare di sé anche in alto.
Massimo Consorti
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