Entrando nella Grande Sala, la prima cosa che mi viene in mente è che questa poderosa Aula Magna somiglia – nell’architettura – al “piccolo” antico Bandoneon di Daniele Di Bonaventura.
La seconda, che non mi pare somigli (per la sua forma squisitamente squadrata e regolare) a nessun altro strumento musicale che io conosca.
La terza, che probabilmente anche le epoche di costruzione/fabbricazione - del Convitto e del Bandoneon - sono le stesse.
La quarta, che l’ “aria politica” che tirava nell’Argentina degli anni ’30-40 delle Milonghe e del Tango non era tanto diversa dalla nostra, quando costruivamo con intenso ardore le temibili architetture funzionaliste/razionaliste (pubbliche, scolastiche, residenziali, onestamente a loro modo anche “belle”).
La quinta, e qui si va sul personale, che da diretto “conoscitore” delle severe atmosfere di un Convitto Nazionale similare - quello di Assisi - non di rado ci capitava, ricordo, di ascoltare proprio Piazzolla (Gardel no): non per scelta ma perché questo usciva dall’altoparlante durante la “ricreazione” (e ci allenavamo a ballarli, quei due/tre tanghi sempre quelli, tra maschi, semmai ci fosse capitata in “libera uscita” qualche agile ragazzetta…). Erano gli anni della sua crescente notorietà e la radio “metteva” Piazzolla; noi in genere si preferiva blues e rock (seppur primordiali), invece ci toccava Sanremo a ripetizione, alla fine ci piaceva…
La sesta, sto perdendo il conto ma mi fermo, che le “meraviglie” acustiche e culturali del Tango - da stasera io penso - spiccano si valorizzano e si godono molto meglio in un ambiente così inconsueto e severo, storicamente compatibile, architettonicamente accordato, piacevolmente rigoroso. Specie se gli interpreti, oltre che sopraffini musicisti, appaiono - come stasera - anche consumati “attori” di un’altra epoca…
Il formidabile Ensemble d’archi dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana, tutti in nero come tangueri, disposti in due semicerchi con al centro Di Bonaventura-tanguero encantador a dirigerli su una sedia rotante come compasso, con 2 leggii contrapposti est-ovest; amovibile fondale tecnico nero da teatro; soffitto altissimo a quadrotti; solitario faro arancio da cinema allo zenit.
Funzionalismo/Razionalismo in questo “Regno del Tango”: il suono tortuoso del bandoneon (“acciaio scadente fa il bandoneon buono”) vi spazia simmetrico a raggiera, accompagnandosi agli archi con capriccio o slanci improvvisi, e quelli rispondono con inchini, accenni di piroette, abbandoni, riappacificazioni, silenzi…
Scultori di suoni, rinnovano la malinconia commovente del tango. Mentre l’Aula Magna assiste e ascolta immobile nelle sue linee squadrate: pareti ad angolo retto che paiono disegnate al tecnigrafo, finestre altissime di sapore Liberty dalle “spaziature” uniformi e dialoganti, busti di gesso impassibili che non stonano, d’altronde negli anni ‘30 erano obbligatori. Stonati quei neon da fabbrica, li han messi dopo.
Il marmoreo pavimento futurista (rifatto, avrà al massimo 10 anni) è l’ulteriore tocco architettonico, perfetto per una serata di Tango. Se il colore della tanghitudine è spesso il grigio (come la tonalità di fondo in questa sala), qui si concentrano i colori dell’energia, angoli acuti che partono dall’area del bandoneon e si diffondono. Daniele pare giocarci: note alte trattenute, ticchettii, extrasistoli… il suo bandoneon è come un’ Aula Magna in miniatura a volume variabile con, al posto delle finestre su due pareti, consunti tasti rotondi.
Infine il pubblico, anch’esso scenografico: sembra traslato dagli anni ’30 con la macchina del tempo, raccolto nelle sinuose e magre sedie d’epoca (inquadrate in 2 plotoni di file di 6) che chissà quante gonne di percalle conobbero…
Fuori, in questa sera di fine aprile, la neve… Forse a Buenos Aires non capita.
PGC
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