“Per noi non c’è che una stagione: quella del dolore”
Oscar Wilde, De Profundis
La formidabile pièce di Moises Kaufman, “Atti osceni. I tre processi di Oscar Wilde”, in questa prima all’Auditorium della Stella di Spoleto, si apre sui dolenti passaggi di quel “De profundis” che il poeta irlandese (qui, un intenso somigliante Giovanni Franzoni) scrive verso la fine della sua prigionia: questa, iniziata nel 1895 nel carcere di Reading con la condanna per perversione sessuale, segna “la morte civile dell’uomo e dell’artista” e si conclude dopo due anni di regime durissimo e di lavori forzati. La morte vera del poeta, genio e artista meraviglioso inesorabilmente distrutto nel fisico, dimenticato e in miseria, costretto a vivere sotto falso nome, avverrà in una fredda Parigi nel novembre del 1900, a soli tre anni dalla scarcerazione. Dodici persone seguiranno il funerale dell’artista che 20 anni dopo sarebbe stato “l’autore inglese più letto dopo Shakespeare”.
La “narrazione” dei tre processi ad Oscar Wilde è nel testo di Kaufman trascinante ricostruzione polifonica: la tragedia ne emerge con le voci e le differenti visioni dei personaggi che l’hanno vissuta, travalica i confini storici del moralismo vittoriano, diviene epitome della ferocia di tutti gli oscurantismi e ipocrisie sociali.
Dal processo intentato da Wilde contro il marchese di Queensberry - padre del giovane amatissimo Alfred Douglas - per averlo diffamato riferendo del suo “atteggiamento sodomita”, e conclusosi con l’assoluzione del marchese, scaturiscono come effetto boomerang gli altri due processi, stavolta contro Wilde stesso, che verrà condannato al massimo della pena (che il giudice ritiene inadeguata) per atti osceni e sodomia in “violazione del Comma 10 Sezione 2 della Riforma del Codice Penale”. La rovina si abbatte sull’artista: bruciati i libri, messa all’asta ogni sua proprietà, spezzati i legami famigliari, della sua vita non resteranno in breve che macerie.
“Sta crollando tutto, e con che fragore… Pensavo solo di difenderlo da suo padre…”: così Wilde guarda precipitare la vita - occorre un orribile coraggio per affrontare tutto ciò - eppure la sua figura piegata resta titanica nello spazio claustrofobico dell’aula di tribunale, nudo contenitore teatrale il cui perimetro si riduce con le sbarre che gli attori gli stringono intorno; qui i nove interpreti consumano le tappe della tragedia, di volta in volta personaggi, narratori ed anche “coro”, voce collettiva della strada (“Ammazzate quel finocchio!”) aizzata da cronisti senza scrupoli e da un giornalismo scandalistico e bacchettone.
“Non so rispondere a prescindere dall’arte”, dirà Wilde all’avvocato che lo incalza intimandogli di rispondere. E lui che ha fatto "dell’arte una filosofia e della filosofia un’arte”, che ha “cambiato la mente degli uomini e il colore delle cose”, risvegliato l’immaginazione del suo secolo, sulla scena del tribunale è l’esteta beffardo e prodigioso il cui genio trionfa sulla miseria dei suoi accusatori, ed è infine l’uomo annientato alla lettura della sentenza (E io?... Non posso dir nulla?).
“Le vere tragedie della vita avvengono in maniera così inartistica”, scrive, e tuttavia la sua figura di artista che “reclama all’arte uno statuto di libertà assoluta” giganteggia sull’accanimento di legulei che nell’ossessiva lettura delle sue pagine cercano le prove di perverse deviazioni sessuali, si erge nella coerenza soave del proprio sentire che nulla concede ad ipocrisie e apparenze, si staglia nitida negli squarci poetici che spezzano l’azione concitata, che stemperano il pathos quando giunge al suo acme.
La domanda da cui muove la ricerca teatrale di Moises Kaufman – come può il teatro raccontare la Storia – trova dunque risposta nell'appassionata ricostruzione di un’aberrazione giuridica che muove dagli atti originali del processo (la cui trascrizione è comparsa in maniera fortunosa da non molti anni) e in sapiente montaggio lega atti processuali, lettere, scritti di protagonisti e comprimari, articoli giornalistici, componimenti e memorie dello scrittore. Impianto complesso, straordinariamente unitario e coerente pur nella pluralità di voci e nell’intersecarsi di piani narrativi e temporali.
Dalla “povera luce sporca” che passa dalle sbarre di quella sua cella, da quel suo tempo imprigionato dove “per noi non c’è che una stagione, quella del dolore”, la figura di Wilde ci parla e c’interroga ancora: gli straordinari interpreti e la regia che l’hanno resa viva sulla scena per oltre due intensissime ore l’hanno restituita intera alle nostre distratte coscienze.
Lasciandoli, ci chiediamo se nel tanto che nel tempo è cambiato, tutto sia davvero cambiato, e se scorie di quell’oscurantismo, dell’ottusità di quei poteri, della ferocia moralistica di una società e di un’epoca, non sopravvivano ancora in troppi anfratti, non sempre nascosti, del nostro vivere odierno.
Sara Di Giuseppe
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