Se mai capitasse di ritrovarsi condannati alla ghigliottina, può essere di qualche conforto che il marchingegno in questione vanti una lama di qualità superiore, garantita al 100% anallergica come da manuale dell’utente di cui è diligentemente provvista.
E’ quanto accade a Claudio, giovane frastornato pittore capitato chissà come o perché nella remota città di Arcadia, in mezzo a personaggi strampalati e a situazioni che non lo sono meno: quella condanna non verrà eseguita per certi arzigogoli cronologico/burocratici, e il giovin pittore riprenderà la sua strada, o rimarrà in Arcadia, chissà.
Succede molto altro, nella deliziosa pièce “Un ricordo d’inverno”, nel piccolo teatro dai muri spessi e dal fresco/cantina nella Spoleto rovente di questi giorni che di arie condizionate sembra averne poche nelle sue molte sale (non fa eccezione neppure il prestigioso Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti).
Nasce come Saggio di diploma della Scuola di regia dell’Accademia (anno 2016, titolo originale “Ricordi di un inverno inatteso”, vincitore del bando Nuove Opere SIAE SILLUMINA) il lavoro del giovanissimo Lorenzo CollaltI: creazione geniale dove il divertimento intelligente e la risata mai fine a se stessa rimandano ogni volta a qualcosa di più complesso, pur restando perfettamente aderenti alla linea drammaturgica.
Il carretto di legno al centro della scena, scomponibile e multiforme – carro con ruote poi tavolo da pranzo, letto, palco da comizio e… ghigliottina - nella sua funzionale versatilità è sintesi concreta del continuo traslare dell’azione dal reale all’immaginario, dal concreto all’astratto.
Le due indolenti guardie poste a sorvegliare la città, Gianni e Giovanni (due Gianni, insomma), lo trascinano in tondo senza scopo apparente se non l’obbedire a un copione abbozzato su un foglietto, più volte letto dall’uno o dall’altro ad alta voce, con comico effetto di ridondanza sull’azione in svolgimento.
La città di Arcadia è la cornice, tanto nel nome evocatrice di realtà idilliaca e luminosa, quanto invece sperduta in una imprecisata lontananza, irraggiungibile e circoscritta da catene montuose dai nomi improbabili, dominata da un potere grottesco e autoritario, condizionata da inquietanti riti sociali (ogni venerdì notte i cittadini si rintanano perché possano aggirarsi liberamente in città le fanciulle che dopo essere state schiave del potere per un certo periodo, vengono esiliate nei boschi dove vivono allo stato selvatico).
Su questo tessuto invalicabile e compatto si affaccia intimorito e perplesso il giovane artista, pittore inviato ad Arcadia con disposizioni dall’alto contenute in un misteriosa lettera. Da qui in poi le situazioni si fanno imprevedibili, gli incontri inaspettati, nulla è pirandellianamente ciò che sembra tranne forse la fanciulla evanescente - una delle creature relegate nel bosco - concreta e reale più del contesto che la racchiude, tanto da innamorare di sé il giovane pittore con la sua grazia muta e gli scatti animaleschi.
Sono sempre i due svogliati ubbidienti esecutori Gianni a Giovanni a riportare l’azione nei confini del nonsense ogniqualvolta sembri delinearsi una parvenza i normalità: il giovane pittore è pur sempre “lo straniero”, il diverso che il rigido tessuto sociale non sa inglobare; egli stesso non ne comprende i meccanismi, vani gli sforzi di ricondurre alla sua logica razionale benché spaesata la realtà di matti che lo circonda, durante i cinque anni che sono il tempo di questa storia, un “inverno lungo cinque anni”.
Così è quasi inevitabile che l’ottuso incalzante interrogatorio da parte delle due guardie estrapoli dalla normalità dei comportamenti e abitudini e reazioni del giovane, elementi di sicura “colpevolezza”: la condanna alla ghigliottina – pur non eseguita – è il punto d’arrivo.
Un plot surreale denso di implicazioni, allusioni, rimandi letterari, canovaccio pronto a deragliare ad ogni istante verso l’assurdo, che strappa la risata aperta e spinge intanto alla riflessione; l’autore/regista – con la complicità del giovane gruppo di bravissimi attori - maneggia senza sforzo i registri più diversi, che come su un piano inclinato scivolano continuamente l’uno nell’altro.
Le dinamiche sociali, le difficili relazioni umane, i grovigli del potere e le forme del suo controllo, tutto è presente in controluce in questa Arcadia geograficamente indeterminata, polis fantastica eppure non meno concreta di quest’altra che vive ogni giorno al di qua della scena.
E’ per questo che il dialogo telefonico dei due Gianni col “Servizio Clienti” della ditta produttrice della ghigliottina - ancora mai ”testata” (!) e dunque dal funzionamento ancora incerto, salvo per quella avveniristica rassicurante lama superanallergica - non è solo uno dei momenti più esilaranti, è anche specchio rovesciato e inquietante di un tempo fuori controllo (il nostro e forse non solo) e dei suoi ingranaggi impazziti, del nostro straniamento, della nostra facile resa all’assurdo e all’incomprensibile.
Sara Di Giuseppe
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