Il vento s’è impigliato all’orizzonte, scriverebbe Dimarti pennellando l’atmosfera di questa sospesa sera d’agosto. Cielo profondo sopra gli alberi, quiete stelle lontane, giardino antico di terrazze e gradini impervi che si fa arabo negli aromi di cous cous e di tè speziato servito con gesto d’arabesco, e nella voce calda del giovane Yacine in severa galabeya che in arabo legge le poesie di Giarmando. Tornerà fra poco alla sua Itaca nel deserto, alla famiglia, lui arrivato dal mare come tanti. Poi sarà di nuovo qui, Yacine (mi chiamo anche Ahmed, come quasi tutti gli arabi), a questo “scrigno dell’amore, dell’accoglienza, della cultura” - così Di Bonaventura definisce il luogo nato dalla passione di Stefania e di Euro - e da qui riprenderà il non facile viaggio della sua vita.
Il Poema del Melograno, inedita meraviglia che nel marzo dedicato alla Poesia sfoglieremo con a fronte l’araba traduzione di Nesrine Besbes, è il frutto carnoso di agguerrita dolcezza maturato nel poeta dalla “attentività testimoniale” (Di Bonaventura) per l’universo di colore, di danza e di suono - suoni stupiti fragranti - di quella cultura antica: prismatica e polposa, complessa e succosa come il melograno che ne è simbolo “carico di sole ed essenze”.
Granada e Palermo ne sono i confini: lo apre la “melograna di Spagna”, che ha il frutto del paradiso musulmano nel nome e nello stemma, moresca città di sapienza e cultura non piegata alla feroce Reconquista cristiana, spezzata infine da oscurantismo e violenza di sovrani cattolicissimi; lo chiude Palermo, scrigno medievale di poeti arabo-siculi, in fuga come Ibn Hamdis col suo diwan di versi d’amore per la patria perduta, di struggimento per un nostos mai realizzato (Sono stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia?).
Al Melograno il poeta rivolge domande, curioso del riposto segreto di quelle danze d’Oriente che custodiscono sontuose messi e frutti sonori; il Melograno risponde al poeta, e lo fa dando voce agli Strumenti - squittire rapido di uccelli, sapori di nettare e di mirra - poi ai Ritmi- percorso lungo del Nilo, arcobaleni accovacciati, beduino ritmo raccolto - poi alla Danza - alcove odorose di cinnamono, fervore accecante del giorno, i sette colori dei sette veli di Salomè, chiarezza di luce danzante per l’Antipa, e l’ingombrante testa del Battista…
“Avevo dimenticato la nostra musica, i nostri ritmi, la nostra danza” scrive a Giarmando la traduttrice Nesrine, e il poema di Dimarti è questo, nel nostro tempo miope e feroce: è folgorazione che scopre “l’anima despiritualizzata dell’uomo” (Di B.) perché “ristare ammarati è la più atroce sconfitta” e “solo dalla speranza rigermina un alabastro di salvezza”. Nella grande idea di recupero dell’uomo che pervade la poesia di Dimarti - commenta l’attore - sentiamo l’eco di quell’impensabile “…continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo” consegnatoci da Anna Frank.
Lo sguardo di Giarmando sull’artista scopre cose che l’artista stesso non conosce: così, poco prima, sull’altissima poesia di Dimarti - degna dei più grandi del Novecento - argomentava Di Bonaventura, i cui spettacoli sono ogni volta contenitori inesauribili, lezioni magistrali di letteratura e teatro, di storia e poesia, di lingua e dialetto, di tradizioni popolari e di potente classicità.
Lezioni che possono di colpo farsi giullarate: come quando si accende, stasera, il ricordo di una cena nella casa marchigiana dell’elettricista nativo di Casablanca, autore del sapiente impianto d’illuminazione nel suo ora dismesso Teatro Aikot da 27 posti in via Fileni (“con le assi e tavole del palcoscenico farò la mia bara”, ride l’attore): la giunonica madre in elegante hijab che cucina il delizioso menu arabo, e la conversazione fitta e cortesissima con lei che ovvio parla arabo e Vincenzo no ma capisce tutto anche i più sofisticati culinari tecnicismi, riprodotta in imperdibile grammelot degno del miglior Dario Fo.
Noi aficionados lo sappiamo, che quelli di Vincenzo sono sempre due spettacoli, e anche più, in uno…
Sara Di Giuseppe