E’ dei grandi uomini di teatro, l’attrazione magnetica che inchioda il pubblico, seduce noi umani e non solo: anche le colte intelligentissime api, e il mitologico geco, e le preistoriche lucertole…
Ci sono tutti, stasera, oltre a grilli e cicale confusi dal caldo: il geco, impertinente come il ragazzaccio che fu prima di mutarsi in rettile al tocco rabbioso di Cerere offesa, imprendibile lampo screziato sui ruderi così mal restaurati del Castello; e c’è quell’ape intrepida che, non paga di ascoltare Vincenzo, ne ha cercato e conquistato il contatto epidermico, s’è infilata nell’ampia tunica edipica, ha lasciato il segno rovente sulla spalla dell’attore che - stoico - non s’è fermato, facendo così più reale il pathos del re sventurato, più aspro il dolore dell’infelice stirpe di Labdaco.
“Arte demolitoria è la mia”, sottolinea l’attore (stavolta non-solista) fin dalla prima delle tre serate sofoclee: teatro che demolisce il “decanto” e la tentazione declamatoria, il birignao che i registi “importanti” sempre impongono ai loro attori specie nel teatro classico, per eccellenza teatro di potere e di regime. Proprio in quello, allora, maggiormente occorre recuperare la lingua madre, la lingua parlata dietro l’angolo, quella che raggruma in sé tutti i possibili sottotesti; quell’onomatopeica “lingua del mondo”, insomma, universo sonoro stratificato nelle culture del popolo, l’unica che sia in grado - superando un teatro rimasto fermo su se stesso - di dar voce al pensiero antico che scava a fondo nell’uomo, di dar corpo ai pensieri che – direbbe Pirandello – nascono malgrado noi, bastardi come a volte sono i figli, tracotanti perché pronunciano verità (e per questo perniciosissimi).
Il suo è perciò teatro della festa e della strada, teatro dell’immediato che qui ha le sue quinte ideali fra le antiquissime vestigia del castello che fu: pietre di restauro malamente assemblate da ignoranti mani contemporanee, offese da cartelli storti e tubi dimenticati, da incuria e da echi di musicacce del borgo in turistico orgasmo, intralciate dalla fluorescenza di obbligatorie e inutili Protezioni Civili.
Così ecco nel prologo l’attore - di nuovo e temporaneamente solista - farsi allo stesso tempo coro e sciamano: maschera adunca che in mescolanza di dialetti e onomatopee disegna l’antefatto delle vicende tebane. La peste che sta decimando vite in un altro paese, richiede una vita: Dovete fare il sacrificio, prescrive lo sciamano in grottesco saltare e contorcersi al popolino ignorante che lo interroga - Siama’, come ci dobbiamo comporta’? - e non capisce, duro d’orecchi e di comprendonio – Eh, che siete detto? –
Sacrificio ci sarà, e sotto il pietrame della lapidazione non il vecchio mendicante fatto bersaglio si troverà, ma una cagna che svommica e muore e in quell’istante la peste è vinta, la città è libera.
Deposta la maschera, indossata la tunica (l’ape malandrina l’aveva individuata, adesso studia le mosse, il percorso…), l’attore è ora Edipo, saggio e sapiente re di una Tebe una volta luminosa, devastata ora - 450 a.C. - dall’orribile pestilenza.
Da lui, che la liberò dalla sanguinaria Sfinge - Tu che già una volta hai raddrizzato il corso della nostra vita - la città attende nuova salvezza. Il sacerdote lo prega e sollecita, il supplice Coro (i bravi allievi de “La Macchina Attoriale”) se la prende con gli dei neghittosi, con Febo Apollo, e con Atena e Artemide, perfino col rubicondo Bacco: li sfida a parole, rabbioso e disperato, si muovano dunque, scendano dai loro regni dorati ad aiutare il popolo stremato.
Non si sottrae Edipo alla preghiera (Figli, poveri figli… la mia anima piange per tutta la città), e il responso di Apollo Pizio apre alla speranza: la salvezza è possibile, non c’è che da cercare chi uccise il vecchio re Laio, la punizione del reo scioglierà il maleficio che è conseguenza del delitto, fugherà la pestilenza. Meglio anzi - è la proposta di Creonte - convocare il cieco indovino Tiresia, lui certo saprà svelare il colpevole, e tutto avverrà più in fretta…
Muove da qui l’inchiesta, e cammina a ritroso poiché il mitologema - il fatto originario, seme della catastrofe - è già compiuto quando la vicenda ha inizio. E’ la “tragedia perfetta”, costruita come una modernissima detective’s story, i cui colpi di scena alternano sollievo e terrore e rendono aspro il confronto: ciascuno rigetta da sé la colpa, rabbiosamente la scaglia sull’altro in questa che è anche una “tragedia dell’ira”; alla collera essa attinge la sua lingua, ed è testo attualissimo che rimanda alla nostra coscienza ancestrale, alla rabbia che noi umani custodiamo irrisolta da millenni.
Edipo è insieme investigatore e colpevole, e nella generosa leale volontà di far luce (egò fanò) e di risalire indizio dopo indizio, prova dopo prova, ogni gradino dell’oscura sua origine, rivelerà fatalmente se stesso come l’empio, causa pur inconsapevole del maleficio tebano.
Il vaticinio antico s’è dunque compiuto inesorabile, s’è fatto beffe dei miserevoli destini umani: uccisore del proprio padre, figlio e marito della propria madre, padre e fratello dei suoi stessi figli, Edipo si condanna a vivere (La morte si sconta vivendo: Ungaretti, secoli dopo) accecato ed esule - Luce, ch’io ti veda per l’ultima volta, perché io nacqui da chi non dovevo, mi congiunsi con chi non dovevo, chi non dovevo uccisi - emblema immortale della contraddittoria duplicità e infinita miseria della condizione umana (Oh razza dei mortali / quanto simile sei / nella tua vita al nulla).
E’ mirabile questo teatro fatto col nulla: non impressionanti fondali di cartonaccio, non pretenziose perforanti luci di scena, nessuna musica che non sia il misterioso ritmo percussivo di djembe; “il teatro appartiene alla gente, alle mura antiche” dice il maestro che con sapienza ha estratto dai suoi allievi la passione, il talento, la fatica. Dopo gli applausi li vediamo farglisi vicini… c’è da cercare il rimedio giusto contro il bacio infuocato dell’ape malandrina, dell’ape di Edipo.
Sara Di Giuseppe
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