25/09/17

Spigolature da Pordenonelegge 2017


Giallo splendente è il colore di Pordenonelegge, una testa di asinello con le orecchie dritte dritte e il pelo lucido, nero e sfumato di bianco sul muso, il logo scelto per la XVIII edizione, simbolo di pazienza e ascolto, ma anche di misteriosa sapienza animale – qualità necessarie al lettore pronto a immergersi nell’avventura dei libri e degli incontri con gli autori. Tutta la città, con le sue vetrine, le strade, le facciate degli edifici storici, le magliette dei duecentoventi angeli volontari del servizio d’ordine, appare vestita di questo giallo che ha illuminato giornate autunnali e scrosci di pioggia incombente sui tendoni degli spazi allestiti per accogliere gli ospiti più famosi e i banchi dei libri degli editori a kmzero e non solo.
A Pordenonelegge ti devi organizzare e poi ti godi il tuo programma personale e gli imprevisti del caso. Ti può capitare, come è accaduto alla mia amica che in questa città ci vive, di incontrare in un giorno tutti gli amici e conoscenti che solitamente vedi in un anno intero: un saluto, passi veloci sotto i portici commentando qualche evento, e via zigzagando tra la folla.
T i può capitare di assistere grazie al tuo pass della stampa alla registrazione di un’intervista per la RAI di Vandana Shiva: le poche sedie riservate al pubblico sono vuote – l’appuntamento ufficiale sarà nel pomeriggio, affollatissimo, - e tu ti godi a distanza ravvicinata la Grande Madre indiana avvolta nel suo sari viola, il bel viso dalla sguardo luminoso, i capelli raccolti, la maestà che emana da tutta la persona. Ascolti emozionata le sue risposte, tradotte dall’inglese quasi in simultanea, piene di energia contagiosa Riguardano la sorte del pianeta, la sacralità della Terra,la costruzione di un movimento democratico globale contro la privatizzazione delle risorse naturali e i cibi geneticamente modificati, i temi per i quali ha lottato per tutta la vita e che verranno ampliati e ripresi nella presentazione dell’ultimo dei suoi numerosi libri, La terra ha i suoi diritti. La mia lotta di donna per un mondo più giusto – ma in quella strana intimità è un’altra cosa, scatti timidamente qualche foto, è il più bel ricordo che porterai con te.
A Pordenonelegge si sente parlare molto di saghe, di romanzi e racconti che escono a puntate come nei feuilleton ottocenteschi: ti meravigli un po’ e stai con le orecchie dritte e lo sguardo attento a osservare quell’immersione in un mondo fatto di personaggi, di piccoli paesi delle periferie, diventati emblematici di una realtà di emarginazione e di sofferenza o di altri sentimenti universalmente condivisi ma sottratti al caos della vita quotidiana e salvati nelle storie .Due esempi per tutti le scrittrici Elisabeth Strout e Jennifer Niven, entrambe americane. Le storie si allacciano una all’altra mescolando piacere e attesa, curiosità e immedesimazione. Curiosità c’è anche in te, che hai una idea diversa di letteratura e altri maestri che hanno segnato il tuo cammino, e guardi con un po’ di invidia gli scrittori circondati da stuoli di fan che fanno la fila per farsi autografare il libro appena acquistato. Chi lo sa che cosa si prova!
Preferisci comunque gli spazi più piccoli, nei conventi come San Francesco o nei palazzi antichi, come il Montereale Mantica, la Galleria Bertoia, il Gregoris: qui scopri la Libreria della poesia, una stanza molto accogliente, scaffali tutt’intorno dove intere collane di poesia fanno bella mostra di sé e dei loro autori, una volta tanto non relegati negli angoli meno in vista delle librerie. Un’atmosfera più rarefatta si respira, naturalmente anche negli incontri, ma si sa, la poesia è per pochi, e i poeti diventeranno famosi, alcuni, dopo settecento anni, come è stato detto allegramente da uno di loro. 
In uno di questi spazi ti godi la vincitrice del premio Campiello di quest’anno e il dialogo intrecciato intorno al suo romanzo, L’arminuta, e anche i giovanissimi, alcuni ancora studenti di liceo, della selezione del Campiello giovani. Leggono passi dall’antologia che raccoglie i cinque racconti finalisti. Sono intelligenti, bravi, già partecipi di problematiche dolorose e complesse, alcuni hanno una scrittura che ti sorprende, ritrovi il monologo interiore, questa sì che è una sorpresa!
E quando sei per strada le sorprese continuano, ti fermi perché vedi sfilare bambini si e no di prima elementare, non strillano, in fila per due e mescolanza interetnica bella da vedere. Come loro sono belli negli incontri gli studenti più grandi, motivati, attenti, non guardano nemmeno i cellulari o lo fanno così discretamente che non te ne accorgi. Provi nostalgia per esperienze scolastiche lontanissime nel tempo, tu eri la prof, ci provavi, occasioni così ti sarebbero piaciute, e molto.
Pordenonelegge è un’infinità di stimoli e di momenti da ripensare, nel bene e nel male, una maratona letteraria come sono ormai tutti i festival, le rinunce sono inevitabili data la contemporaneità degli eventi ma l’organizzazione è quasi perfetta e la puntualità sempre rispettata. Un luogo a sé è il teatro Verdi, sorto negli ultimi anni: struttura bianca e morbida lievemente planata in mezzo al centro antico, dove hai avuto modo di incontrare nel tempo alcuni mostri sacri della letteratura e dove avviene l’inaugurazione del festival, quest’anno aperto con l’ospite d’onore Carlos Luis Zafon e il suo Labirinto degli spiriti. Altri due ospiti di eccezione sul palco del Verdi il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka e Luis Sepulveda, alla cui presenza ti senti parte, per un istante, di un pezzo di storia, vicina e lontana, che riguarda anche te.
Voglio concludere con il ricordo di Ungaretti e la presenza dell’amata Bianca Bruno, che introduce la presentazione delle lettere inviate a lei, giovanissima, dal vecchio poeta: abito rosso, presenza fluttuante sul palco dei relatori, un” saluto” in carne e ossa, quasi una materializzazione dell’amore dei poeti che si permette di essere fuori misura, ispirato, strano e misterioso. Il pensiero ritorna ai territori dell’immaginazione, dove tutto diventa possibile, e ai versi di un altro grande poeta, T.S. Eliot: I vecchi dovrebbero essere esploratori…

Maria Grazia Maiorino

22/09/17

ModenaSassuoloCarpi. FestivalFilosofia sulle arti. La lectio magistralis di Salvatore Natoli: Aretè - La costruzione di sé


UNA SOLIDA ARCHITETTURA

      Una solida architettura è ciò che viene alla mente nell’ascoltare il filosofo e il suo limpido ragionare “sullearti” e sulla “Costruzione del sé”.  Argomentare diretto, colloquiale eppure dotto, pittoresca gestualità di due grandi mani che paiono dotate di parola; non fronzoli né retorica ci tengono incollati all’ascolto, solo l’armonico fluire di quel pensiero che - mattone su mattone, colonna dopo colonna - ricostruisce ab antico l’UOMO attraverso i processi che lo determinano, nel suo operare tra finitezza e virtù, desiderio e misura, responsabilità e destino.

        Punto di partenza è il concetto di Virtù, l’Aretè dei Greci: per quelli, attitudine a ottimizzare le proprie abilità, capacità di metterle a frutto, fondamento dell’azione ben riuscita, della perizia, del “merito” che produce onore, stima, gloria e concerne ogni ambito dell’esperienza umana, dell’intelletto così come della capacità fisica. Non a caso la sua radice -ar è base dell’ampio plesso semantico che dal greco ararìsko  (metto insieme, armonizzo) giunge al latino ars (capacità di costruire armonicamente); essa è sì categoria estetica ma anche dinamica poiché si fa produttrice di bellezza, eleganza, funzionalità.

     La virtù - accezione tarda di aretè - è parte essenziale del processo di edificazione dell’io: l’uomo costruisce se stesso attraverso ciò che opera, in una relazione continua con l’ambiente, circolarità illimitata e inevitabile che delinea la nostra identità, il rapporto con gli altri, il senso stesso della nostra esistenza. Nell’esercizio incessante e arduo della edificazione del sé, l’uomo impegna le proprie abilità, si espande, costruisce, impianta: attività che ha in comune con l’animale, ma se questo si ferma alla necessità primaria - la costruzione della tana - nell’uomo  l’arte, o artificio, risponde a un bisogno di auto potenziamento il cui principio dinamico è il desiderio.  E’ in quest’ultimo la ragione del successo ma anche della perdizione.

Il desiderio ci schiavizza, infatti, se perde coscienza della finitezza, se l’impulso iniziale - liberarsi dalla necessità – tramuta la sua dinamica difensiva in offensiva, se rende necessario ciò che prima era lusso, se l’uomo aliena se stesso in ciò che produce e se la misura del suo sviluppo diviene il prodotto. L’esperienza virtuosa della costruzione del sé si trasforma allora in viziosa, nella presunzione d’onnipotenza che ci asservisce alle “protesi” per la mente e per il corpo - la “mente estesa” il “corpo esteso” - che di continuo elaboriamo e senza le quali non viviamo.

      Ci espandiamo davvero, si chiede il filosofo, se la tecnica nella sua impersonalità, lungi dall’essere consolatoria, espropria l’uomo della singolarità della sua finitezza? La grande rivoluzione tecnologica non ha cancellato il malessere (in qualche caso l’ha accresciuto), mentre la moltiplicazione dei mezzi ha cancellato i fini, li ha sostituiti con l’illusorio mito della crescita, incessante e ad ogni costo. Se è oscurantista essere contro la tecnica, è pur necessario interrogarsi di fronte ad essa: seguirla senza subirla è precondizione necessaria per evitare che la nostra società collassi.
    Se ci fosse, ragiona Platone in Eutidemo, una scienza che sapesse renderci immortali, nessuna utilità ne trarremmo se non avessimo il senso dell’esistenza.

       Occorre il pensiero, senza il quale il nostro agire travalica la misura, ci rende schiavi e infelici: la società dell’iper-movimento e dell’eccitazione produce solo diminuzione del godimento, malinconia, catastrofe.

          E’ nella aretè come misura, continenza, temperanza, la chiave: essa  produce le arti belle, che non accrescono l’uomo in potenza ma attivano il pensiero; genera consapevolezza di sé come potenza finita; infonde la coscienza del “giusto mezzo”, la mesòtes aristotelica. Liberandoci dalla schiavitù del desiderio, essa ci offre piuttosto  il governo di esso, la libertà di decidere, il rifiuto di essere eterodiretti.
         Sono schiavi – conclude il filosofo – coloro che dispersi nella moltitudine non si chiedono “chi sono io”, e non sono capaci di dare una destinazione alla vita.

         La grande bellezza di questa “architettura” che ha delineato - con la semplicità dei sapienti - i muri portanti e gli architravi del nostro vivere odierno, ci ha sollevati per un’ora dal grigiore di una piazza ingabbiata da robuste pericolose transenne, percorsa da inutilmente spettacolari e orride divise.
    
        Molto gioverebbe la lezione di Natoli su aretè e misura alle autorevoli teste prive di pensiero, alla loro idea di “sicurezza” affidata a pletoriche controproducenti misure. “Presunzione d’onnipotenza” che acceca e inganna, allontana dalla mesòtes, fa dimenticare che siamo - direbbe il filosofo - “potenze finite”.

Sara Di Giuseppe