22/09/17

ModenaSassuoloCarpi. FestivalFilosofia sulle arti. La lectio magistralis di Salvatore Natoli: Aretè - La costruzione di sé


UNA SOLIDA ARCHITETTURA

      Una solida architettura è ciò che viene alla mente nell’ascoltare il filosofo e il suo limpido ragionare “sullearti” e sulla “Costruzione del sé”.  Argomentare diretto, colloquiale eppure dotto, pittoresca gestualità di due grandi mani che paiono dotate di parola; non fronzoli né retorica ci tengono incollati all’ascolto, solo l’armonico fluire di quel pensiero che - mattone su mattone, colonna dopo colonna - ricostruisce ab antico l’UOMO attraverso i processi che lo determinano, nel suo operare tra finitezza e virtù, desiderio e misura, responsabilità e destino.

        Punto di partenza è il concetto di Virtù, l’Aretè dei Greci: per quelli, attitudine a ottimizzare le proprie abilità, capacità di metterle a frutto, fondamento dell’azione ben riuscita, della perizia, del “merito” che produce onore, stima, gloria e concerne ogni ambito dell’esperienza umana, dell’intelletto così come della capacità fisica. Non a caso la sua radice -ar è base dell’ampio plesso semantico che dal greco ararìsko  (metto insieme, armonizzo) giunge al latino ars (capacità di costruire armonicamente); essa è sì categoria estetica ma anche dinamica poiché si fa produttrice di bellezza, eleganza, funzionalità.

     La virtù - accezione tarda di aretè - è parte essenziale del processo di edificazione dell’io: l’uomo costruisce se stesso attraverso ciò che opera, in una relazione continua con l’ambiente, circolarità illimitata e inevitabile che delinea la nostra identità, il rapporto con gli altri, il senso stesso della nostra esistenza. Nell’esercizio incessante e arduo della edificazione del sé, l’uomo impegna le proprie abilità, si espande, costruisce, impianta: attività che ha in comune con l’animale, ma se questo si ferma alla necessità primaria - la costruzione della tana - nell’uomo  l’arte, o artificio, risponde a un bisogno di auto potenziamento il cui principio dinamico è il desiderio.  E’ in quest’ultimo la ragione del successo ma anche della perdizione.

Il desiderio ci schiavizza, infatti, se perde coscienza della finitezza, se l’impulso iniziale - liberarsi dalla necessità – tramuta la sua dinamica difensiva in offensiva, se rende necessario ciò che prima era lusso, se l’uomo aliena se stesso in ciò che produce e se la misura del suo sviluppo diviene il prodotto. L’esperienza virtuosa della costruzione del sé si trasforma allora in viziosa, nella presunzione d’onnipotenza che ci asservisce alle “protesi” per la mente e per il corpo - la “mente estesa” il “corpo esteso” - che di continuo elaboriamo e senza le quali non viviamo.

      Ci espandiamo davvero, si chiede il filosofo, se la tecnica nella sua impersonalità, lungi dall’essere consolatoria, espropria l’uomo della singolarità della sua finitezza? La grande rivoluzione tecnologica non ha cancellato il malessere (in qualche caso l’ha accresciuto), mentre la moltiplicazione dei mezzi ha cancellato i fini, li ha sostituiti con l’illusorio mito della crescita, incessante e ad ogni costo. Se è oscurantista essere contro la tecnica, è pur necessario interrogarsi di fronte ad essa: seguirla senza subirla è precondizione necessaria per evitare che la nostra società collassi.
    Se ci fosse, ragiona Platone in Eutidemo, una scienza che sapesse renderci immortali, nessuna utilità ne trarremmo se non avessimo il senso dell’esistenza.

       Occorre il pensiero, senza il quale il nostro agire travalica la misura, ci rende schiavi e infelici: la società dell’iper-movimento e dell’eccitazione produce solo diminuzione del godimento, malinconia, catastrofe.

          E’ nella aretè come misura, continenza, temperanza, la chiave: essa  produce le arti belle, che non accrescono l’uomo in potenza ma attivano il pensiero; genera consapevolezza di sé come potenza finita; infonde la coscienza del “giusto mezzo”, la mesòtes aristotelica. Liberandoci dalla schiavitù del desiderio, essa ci offre piuttosto  il governo di esso, la libertà di decidere, il rifiuto di essere eterodiretti.
         Sono schiavi – conclude il filosofo – coloro che dispersi nella moltitudine non si chiedono “chi sono io”, e non sono capaci di dare una destinazione alla vita.

         La grande bellezza di questa “architettura” che ha delineato - con la semplicità dei sapienti - i muri portanti e gli architravi del nostro vivere odierno, ci ha sollevati per un’ora dal grigiore di una piazza ingabbiata da robuste pericolose transenne, percorsa da inutilmente spettacolari e orride divise.
    
        Molto gioverebbe la lezione di Natoli su aretè e misura alle autorevoli teste prive di pensiero, alla loro idea di “sicurezza” affidata a pletoriche controproducenti misure. “Presunzione d’onnipotenza” che acceca e inganna, allontana dalla mesòtes, fa dimenticare che siamo - direbbe il filosofo - “potenze finite”.

Sara Di Giuseppe

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