Il
fascino è cambiato, gli anni passano, i bimbi crescono (spesso
malissimo) e il sentirsi sempre più fruitori e sempre meno partecipi
lo sentiamo sulla pelle rugosa e nel cuore che lacrima.
Sono
cambiate le modalità d'approccio agli Invisibili, fino a qualche
anno fa motivo di discussione che si trascinava ben dopo la
mezzanotte.
La rassegna ha subito variazioni profonde e anche il
nostro modo di porci, prima curioso oggi rassegnato, va di conseguenza.
Questo è il tempo nel quale si va al cinema, a teatro, a un
concerto, a una mostra d'arte per continuare a fare esattamente
quello che si stava facendo prima di entrare nel sancta sanctorum:
whatsappare, facebookare, guardare video demenziali, ascoltare
canzoni se possibile peggio, inviare e ricevere messaggi senza senso
e così, tanto per... quello che accade a pochi metri da noi,
qualsiasi storia venga rappresentata sul palcoscenico, diventa motivo
di disturbo, una interferenza non voluta, fonte inesauribile di
comicità pure quando racconta drammi.
Gli
Invisibili si sono istituzionalizzati, è entrata l'Amat e si vede,
ci sono anche sindaci che accolgono gli attori e questo ci sembra un
passo avanti. Ma tutto ciò rende a contribuire quasi “patinata”
una manifestazione che invece viveva d'istinto e di sperimentazione,
di partecipazione collettiva (che termine desueto!) e di
approfondimento critico con tutte le incursioni nel sociale
possibili.
Nonostante
tutto, resta il meritorio lavoro di Re Nudo che, al di là delle
difficoltà economiche legate a una manifestazione in cui non si
balla, non si suona e soprattutto non si beve, rappresenta una sorta
di resistenza pacifica nei confronti dell'ignoranza che dilaga. Fino
a quando potrà durare non lo sappiamo, speriamo il più a lungo
possibile.
Persi
i primi tre spettacoli a causa di una schiena che risente del cambio
di stagione, dell'umidità e di tutti gli anta che ha retto
indefessamente, ci siamo rifatti sabato e domenica non perdendone
uno, andando a vederne cinque in una specie di full immersion che
pochi sembrano ormai sopportare sia fisicamente che mentalmente, visto che
troppa concentrazione potrebbe nuocere gravemente alla salute, un po' come il fumo.
Il
primo è stato il monologo di Aleksandros Memetaj, Albania casa
mia, di cui è anche autore. È il sempre più attuale teatro di
narrazione, una storia che racconta l'Albania dopo la caduta di Enver
Hoxha e le vicissitudini di un popolo al quale, improvvisamente,
viene dato il permesso di espatriare. Memetaj rende bene l'idea del
dramma e sottolinea efficacemente il percorso che porta un fuggitivo
a tentare la vita in Veneto, regione quanto mai lontana dall'indole
degli albanesi ma che sembra essere in grado di dare loro una
prospettiva. Albania casa mia è una storia che si lascia
ascoltare, che l'attore rende con grande partecipazione ma che pecca
dal punto di vista drammaturgico. Forse troppi flashback e forse
un'ansia che sfocia, in alcuni passaggi, in un testo eccessivamente
complesso.
Il
secondo spettacolo è stato Milite ignoto di e con Mario
Perrotta. In questo caso la storia, quella della Prima Guerra
Mondiale, ci è vicina anche se lontana del tempo. Perrotta ha il
merito di raccontarla dalla parte dei soldati, di quei figli della
terra e del mare trasformati in carne da cannone da ufficiali
incapaci e vittime della loro assurda visione militarizzata della
vita.
Lo
scenario, fin troppo essenziale, è quello della trincea dove si
moriva non solo per le fucilate dei cecchini austriaci, ma anche per
la malnutrizione, l'assenza totale di igiene, la cancrena. Milite
ignoto ci ha riportato a due film, il primo, Uomini contro del 1970 di Francesco Rosi, nel quale la cecità della guerra faceva
da contraltare a quella degli uomini, e a quel piccolo capolavoro
della vita in trincea che è Torneranno i prati del 2014, di
Ermanno Olmi.
Ecco,
se un merito il monologo di Perrotta lo ha, è stato quello di essere
riuscito
a fare una sorta di sintesi teatrale di due momenti alti della nostra
cultura. Ma trattandosi di teatro e non di cinema, abbiamo avvertito
molto forte la mancanza di movimenti scenici, l'immobilità del
narratore seduto sui sacchi di sabbia della trincea, un uso del corpo
dalla vita in su che poteva e doveva essere diverso.
Di iLove della Fattoria Vittadini preferiamo non parlare. Non
abbiamo capito, nell'ordine, perché è stata invitata, perché
trattandosi di teatro-danza non siamo riusciti a vedere né il teatro
né la danza e, infine, se è vero che l'amore è un concetto
totalizzante che non ha barriere né confini, questo ci è sembrato
un calesse e abbastanza sgangherato.
Gaetano
Ventriglia torna agli Invisibili dopo venti anni. Stanco lo abbiamo
lasciato, stanco lo ritroviamo in una piece, In terra in cielo che parte da Don Chisciotte per (ricorriamo alle note del depliant)
“trattare la relazione tra l'essere umano nell'estrema nudità
esistenziale e l'archetipo di Don Chisciotte” che parla con le
parole di Paul Eluard. In coppia con Silvia Garbuggino, Ventriglia ci
regala un personaggio stanco, ma stanco davvero.
Di
tono diverso e di diversa presa, La famiglia campione, della
compagnia Gli omini di Pistoia.
La
famiglia oggi, quella tipo, lo standard medio, viene messa in scena
con attenzione e un occhio rivolto ai cambi generazionali (tre in
questo caso), che gli attori sfruttano per addentrarsi in tematiche
più profonde ma che alla fine, si possono ricondurre all'uso di un
solo termine: confronto.
Godibilissimo,
questo ultimo spettacolo, tanto che per molti versi ci è sembrato che più che assistere a una rassegna dei Teatri Invisibili, ci siamo trovati di fronte a un classico film della commedia all'italiana e con tutti
gli ingredienti necessari. Un po' di sale (il dramma e le lacrime),
un po' di zucchero (l'ironia e qualche risvolto comico) e tanta
passione, che poi fa la differenza.
Massimo Consorti