“Un vestito dimesso, un piglio semplice, un tono famigliare, una mite sapienza che irradia per riflessimento tutto ciò che a lui s’avvicina…”: il Manzoni che vive nella lettera di Niccolò Tommaseo a G.Pietro Viesseux, 24 novembre 1826, è anche “l’uomo che in ogni via che calcò impresse un’orma indelebile”*
Quest’orma noi calchiamo stasera nel Recital intorno al Manzoni del nostro Di Bonaventura, regista e attore, talvolta non-solista: oggi è con lui la brava Loredana Maxia, antica allieva dei tempi del TeatrLaboratorium Aikot27, che condivise le glorie di quello spazio magico in via Fileni, quando “il teatro lo facevamo anche per strada” e - scherza Vincenzo o forse no - “eravamo magnifici!”.
Anche oggi l’attore “sparisce” per farsi - attraverso la parola alta (“La parola è un condottiero della forza umana” per Majakovskij) - testimone e “fulcro conoscitivo di un’era”** e il suo recitar cantando disegna l’uomo e l’artista così come emerge dal lavoro anni fa realizzato con il regista e autore teatrale Giuseppe Emiliani.
Vi si intersecano il rendiconto della complessa biografia manzoniana e la dimensione artistica, poetica, ideale, finanche psicanalitica di quel grande.
A cominciare dalla nascita non banale, da quella Giulia Beccaria figlia di Cesare e - pur se le malelingue attribuivano, pare fondatamente, la vera paternità a Pietro Verri - da quel “malinconico gentiluomo di nobiltà minore”, Pietro Manzoni, di ventisei anni più vecchio di lei, genitore distratto e anaffettivo.
Allevato dalla nutrice (“la quale vogliono che fosse svelta, vivace e piacevolona”), poi allontanato dalla famiglia e dall’amore materno in una lunga via crucis di “piccolo coscritto” rinchiuso in austeri repressivi collegi religiosi (i frati Somaschi di Merate, i Somaschi di Lugano, i Barnabiti…).
Precedenti che ti rendono psicopatico o killer seriale; o forse invece ti allungano la vita, stando a quella, ragionevolmente lunga, del Manzoni. Certo ne divenne “un grave nevrotico con spunti ossessivi nonché patofobici”: agorafobia e altro... “Un enigma” dice di lui Pietro Citati “per la singolare forma della sua mente, che combina le qualità più discordanti tra loro”.
Ma fu soprattutto “uomo che trasse il suo genio dal cuore (è ancora il Tommaseo), impresso di quella bontà che l’ingegno, non che guastarla, rende più sicura e profonda […], colui che ha insegnato agl’Italiani la vera via della storia”.
Capace di autoironia (“un Lepore finissimo ne il carattere” - Tommaseo), respinse l’offerta di un seggio di deputato nel primo Parlamento del Regno “giacchè sono balbuziente… Mi ci vede - rispose a Emilio Broglio - davanti a una così solenne assemblea che dico giu…giu…giuro! Farei ridere tutti”
Dovette pregarlo Cavour in persona, e Senatore lo fu poi davvero, nel ’60, e l’anno dopo votò l’Unità d’Italia. [Perché pensiamo subito all’oggi e agli inverecondi gnomi che popolano quegli scranni?...].
La folla lo atterrisce, da quarant’anni non esce da solo, eppure gli universitari lo acclamano sotto casa, vanno a trovarlo perfino Garibaldi, perfino Verdi che alla morte scriverà per lui la sublime Messa da Requiem.
C’erano stati prima gli anni giovanili, di pienezza e d’impegno, del riannodato rapporto con la madre a Parigi, del tardivo edipo che a 20 anni lo lega saldamente a Giulia dopo la morte del compagno di lei Carlo Imbonati (“Ella è continuamente occupata… ad amarmi e a fare la mia felicità” - Lettera al Pagani,1806).
E lei sarà presto suocera amatissima di Enrichetta Blondel - una specie di Trinità, chiosa Vincenzo - sposata sedicenne ad Alessandro e madre dei 10 figli che quasi tutti gli diedero il tormento - ma non volle collegi per loro, gli erano bastati i suoi - e quasi tutti (tranne due) gli premorirono.
E poi il ritorno a Milano, la dolorosa vendita del Caleotto a Lecco, secolare proprietà dei Manzoni, e il distacco da quelle terre lecchesi, contenitori di irrisolte memorie (solo tre anni prima di iniziare il Romanzo che di quegli affetti e ricordi porterà i segni). E poi l’amatissima villa di Brusuglio, ereditata da Carlo Imbonati, che diviene approdo e rifugio dove giocare all’agricoltore, estenuare paure e nevrosi in camminate di ore, appassionarsi di botanica sentendosi “un novello Linneo”; lui e il suo amore per gli uccelli, la sua pietà per quelli in gabbia, la sua avversione per la caccia (un grande anche in questo)
E’ tutto quel mondo, a occhieggiare e trasfigurarsi nella scrittura del gigante che donava a noi Italiani la nostra lingua (e che lingua!) - sola cosa che dia a un popolo dignità di nazione - e una letteratura che spezzava barriere regionali e sociali.
“Quel ramo del lago di Como” egli lo vedeva dal Caleotto, così pure Pescarenico (parecchio del giovane Manzoni scorre nelle vene di Lodovico/Fra’Cristoforo); e la località di Acquate, parte dei possedimenti di famiglia, è il villaggio dei Promessi Sposi. Luoghi carichi delle reminiscenze più care, cosicchè il distacco di Lucia nel romanzo è anche il suo: cacciata dall’Eden e perdita d’innocenza, tutt’uno con la conoscenza della negatività del reale (“… e seduta com’era, sul fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente”).
“Ciò che nel Romanzo del Manzoni piace è il Manzoni stesso” scrive A.De Gubernatis, e tutto nel Romanzo è specchio reale del suo tempo e del nostro: il sopruso eretto a sistema e gestito mafiosamente; le “colonne infami” e le cacce agli untori; la peste, la fame, la guerra. Sull’affresco potente e corale s’innalza il sentimento individuale dell’artista e quella pietà per l’offesa all’uomo che pure non rinuncia alla speranza. La madre che nello strazio composto consegna la figlioletta, appoggiata nella morte al suo petto, al carretto del turpe monatto - ”Addio Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme…” - è acme lirico e contrappunto al degrado morale e fisico di un’umanità atterrata e travolta ma non senza redenzione.
Il “turbine vasto” dei grandi movimenti collettivi, delle passioni e dei moti interiori, delle masse e degli individui, “l’ombra irriducibile della Storia”, tutto questo urge in ogni singolo componimento di quel grande: poiché compito della poesia, lievito e fondamento assoluto dell’arte, è tendere alla verità.
“… Il bisogno della verità è l’unica cosa che possa farci attribuire importanza a tutto ciò che apprendiamo" (A.Manzoni, Lettre à Monsieur Chauvet).
Quel bisogno di vero è anche il senso profondo di questo teatro testimoniale: esso sottrae il respiro titanico di quel genio tormentato alle banalizzazioni scolastiche, alle esegesi pretigne, alle facili consolazioni di presunte Provvidenze, per riproporci integri quel messaggio etico e la grandezza di quell’arte.
E a questo teatro ancora una volta siamo grati per i bagliori di verità che rischiarano il nostro deserto presente e il “teatro confuso del mondo”.
“… Se il Manzoni fosse stato perfetto in ogni cosa, non ci rimarrebbe altro che adorarlo.
Ma poich’egli era mortale come noi e soggetto ad errare e alcuna volta può avere anch’esso umanamente
errato, sarà utile a noi l’apprendere in qual modo egli vincesse le sue battaglie ideali, e quale ostinazione
virtuosa egli abbia messo per vincere”
(Angelo De Gubernatis, Letture alla Taylorian Institution, Oxford, 1878)
* Niccolò Tommaseo - G.P.Viesseux, Carteggio inedito - Primo volume (1825-1834)
** “Dialogo con Vincenzo di Bonaventura, inarrivabile attore solista”
di Alceo Lucidi, in The Life Magazine
Sara Di Giuseppe
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