16/12/17

Teatro dell'Arancio. Viaggio cosmico-letterario in Recital. La forza dell’inquietudine di Ugo Foscolo di e con Vincenzo Di Bonaventura


 Nell’appendice conversazionale che chiude ogni serata con Di Bonaventura, l’attore-solista ci parla ancora di poesia, e imprevedibile come un lampo è la breve narrazione che attinge al mistero profondo della natura. Tra i leoni della savana alla morte del capo branco il nuovo re celebra il più crudele dei riti di potere: mangia i piccoli. La leonessa si allontana allora, e immobile come sfinge antica, ulula al cielo e riempie la notte intera del lamento di morte, del pianto altissimo e senza fine che le darà pace. Il nuovo sole che sorge la vedrà tornare al branco, pronta a vivere ancora, nuovamente madre e fattrice, portatrice di vita.
        Questo è ciò che fa per sé e per noi il poeta, voce che decanta l’inquietudine e il tormento e la pena, perché si possa ancora vivere, e la poesia farsi nostra amica e compagna nel cammino.
        E’ il greco-veneziano Niccolò, che volle poi chiamarsi Ugo e fu per sempre “il Foscolo”, il poeta per il quale - dice in apertura Vincenzo - “abbiamo messo tutto in forma di brillantezza” questa sera: “il suono vi sommergerà”, e il djembé sospeso a mezz’aria, e le artigianali casse d’antan attendono di liberare i promessi 2000 watt. Non rumore ci sarà, ma potente corteo di suoni per il viaggio intorno al “poeta-pariota-giacobino-rivoluzionario-idealista”.
        Se ogni nascita è un destino, quella sua, nell’isola greca da cui vergine nacque / Venere, segna per sempre l’inquietudine che lo farà esule, della patria ma anche dello spirito. E la Venezia del suo secondo approdo, patria che altri tradiranno, nutrirà le stagioni del suo furore libertario e impotente.
       Venezia bizzarra – dice Vincenzo che vi ha trascorso tanta vita – come può esserlo oggi una città senz’auto, dove i teatri sono là, la gente è là, gli incontri sono là; ma città italiana, con tutte le contraddizioni e i chiaroscuri. “Una volta ci tuffavamo nei canali”, dice. Provare a farlo ora. [“Venezia è un imbroglio… Venezia è un albergo… Venezia che muore…” canterà Guccini]
        Venezia ancora splendida nella già inarrestabile decadenza, che il poeta conquista con l’impetuoso “Tieste” dal sapore alfieriano, furente tragedia dei suoi incredibili 19 anni (un trionfo, repliche tante, teatro inusualmente illuminato a giorno).  
        Venezia ceduta all’Austria dal Bonaparte poco prima salutato come liberatore (Il sacrificio della nostra patria è consumato, scrive Jacopo Ortis all’amico Lorenzo), ed è il disinganno del poeta per le spinte rivoluzionarie tradite dal cesarismo napoleonico; e poi il vagare fra Milano, Firenze, infine Londra: e sempre, tormentato e indomabile, “lo spirto guerrier ch’ entro mi rugge”.
        Non tutti lo amarono, certo, come è destino di ogni personalità d’eccezione. Gran ciarlatano e pessimo di cuore negli scritti del Tommaseo, che non sa spiegarsi perché sia tanto festeggiato. Ancor più duro il Rosmini, guidato dal pregiudizio morale e religioso (“Una religione turpe governa il Carme” scrive negli Opuscoli Filosofici a proposito dei Sepolcri).
        Monello forse lo era sempre stato, se dei pochi anni nel Collegio arcivescovile di Spalato (prima che il padre morisse e prima del trasferimento a Venezia) troviamo scritto fra l’altro “Tutti ricordano i suoi capelli rossi rossi, e i suoi occhi di fuoco, e la perpetua inquietudine…”; ma anche “Ugo era espansivo assai e pieno di affetto leggiero per tutti…” . Ed emergeva già la sua precocità intellettuale e poetica: “… Improvvisava poesie in tutti i metri, sonetti al più scrivendo e lo scritto regalava subito a’ compagni. Le lezioni sapeva sempre benissimo, del che suo padre stupiva, sendoché raccontava che in casa e’ non vedeva mai libro di scuola”. (in Mate Zorić, “Due note su Ugo Foscolo e la Dalmazia”)
Insomma, l’allievo che tutti vorremmo…
        Dallo spirito ribelle, dall’infanzia sradicata, dal suo destino di  essere “altrove”, si dipana un’esperienza di adulto in ricerca ostinata di armonia, di quella composizione che deve pur esserci, nelle contraddizioni del reale e della storia. Di qui l’impegno intellettuale rivolto costantemente all’esterno, a “intervenire sul mondo”, e lo stretto intrecciarsi di vita e letteratura in una complessità spesso contraddittoria.
        La prorompente vitalità, ad esempio, le passioni che lo agitano, l’amore stesso – sempre rovinoso come un fiume in piena (“Ho amato, è vero, ma non sapeva di poter amare tanto”, scrive ad Antonietta Fagnani Arese)  hanno per compagna assidua l’idea della morte: desiderato approdo alle tempeste dei giorni, meta che il fratello Giovan Dionigi - suicida - ha già trovato (… E prego anch’io nel tuo porto quïete), rifugio ultimo dalle secrete cure, dal dolore delle illusioni spezzate, dalla condizione di eterno Ulisse in cerca di quell’Itaca che non toccherà mai più, materna mia terra dove ricongiungersi nella tomba agli affetti più cari.
        Ambivalente è Jacopo Ortis, suo primo alter ego:  la scelta del suicidio come protesta eroica coesiste in lui col fatalismo meccanicistico che vede la violenza, quasi legge “naturale”, dominare la storia in un processo di sopraffazione privo di razionalità. “L’universo si controbilancia. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra” scrive Jacopo a Lorenzo.
       Più tardi ci sarà Didimo Chierico, secondo alter ego e creazione della maturità: sarà l’anti-Ortis che pur sentendo non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo […] teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana”.
        Ma c’è per Foscolo un mondo vagheggiato, al tempo stesso mitico e famigliare, rifugio e risarcimento dalla mediocrità del presente, dalle lacerazioni del vivere: è quello della grecità antica, stagione di bellezza e armonia in cui trasfigurare - trasferendola in una mitica lontananza - l’esperienza biografica e alla cui ombra placare la cupa passionalità. E sarà l’approdo finale nella maturità de Le Grazie.
     “Finchè sarò memore di me stesso non oblierò mai che nacqui da madre greca, che fui allattato da greca nutrice, e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto, risuonante ancora de’ versi con che Omero e Teocrito la celebravano”.
        E’ tutto questo mondo a confluire nell’intramontata sinfonia dei Sepolcri, sintesi di religiosità laica e di istanza ineliminabile di assoluto. La scintilla che rubiamo al sole a illuminar la sotterranea notte ai nostri cari defunti (perché gli occhi dell’uom cercan morendo / il Sole), il dialogo che la tomba stabilisce tra i vivi e i morti è infine l’illusione che salva. La memoria custodita dal sepolcro vince la morte e l’oblio; e nella memoria dei grandi, che il sepolcro eterna ed è base nel cammino dell’incivilimento umano - l’uomo vince il suo destino di annientamento.
        E quando infine anche il tempo, trionfando sulla materia, con sue fredde ale vi spazza / fin le rovine, la Poesia - essa sola, l’ultima, la più alta delle Illusioni - vince di mille secoli il silenzio. Essa è il cieco mendìco, il vate Omero che abbraccia le urne e interroga gli spiriti degli sventurati eroi troiani; essa placa quelle anime afflitte col canto; essa, eternatrice dell’uomo, narrerà le sue grandezze e le sue sventure per quante / abbraccia terre il gran padre Oceàno […] finchè il Sole / risplenderà su le sciagure umane.

Sara Di Giuseppe

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