OFFICINA TEATRALE 2017/18
Viaggio cosmico-letterario
IL FUTURISMO
di e con
Vincenzo Di Bonaventura
Ospitale delle Associazioni
Grottammare Paese Alto
10 Maggio2018 h 21.15
“ A SUON DI SCHIAFFI ”
Ha bisogno di Futurismo il nostro oggi senza futuro, ha bisogno di essere rianimato “a suon di schiaffi” dalla rassegnazione, dal torpore, dal silenzioso nulla. E se anche non è più quel tempo e quell’età, e intellettuali di quella tempra non se ne fabbricano più, quell’uomo “carismatico, coraggioso e solare” che fu Marinetti può ancora sgomentarci col suo visionario profetismo, e parlarci ancora, libero dalle infantili schematizzazioni e dalle insulse categorizzazioni della cultura ortodossa.
Degno della nostra serata - davvero “futurista” - è il possente armamentario acustico che Di Bonaventura dal suo glorioso Teatro Aikot 27 ha radunato qui quasi per intero.
La “ionizzazione musicale” - l’avanguardismo delle composizioni di Edgard Varèse qui dirette da Pierre Boulez - ne è la trama, “massa sonora” (così lo stesso Varèse) di suoni percussivi e inarmonici, di ritmi irregolari, caotici e modernissimi. Materia che scuote il teatro come sisma, e quasi precipitante dal magma primigenio si avviluppa alla voce solista e al tambureggiare del suo djembe, vi si mescola in esplosiva reazione chimica: potrebbe perfino – futuristicamente – svegliare dalla narcosi questa città assente in catalessi culturale, e i suoi insegnanti, i suoi studenti, i suoi giornalisti, e l’indifferente annichilita satolla intelligentsiya. Di certo non i politici, così come notabili-imprenditori-bellagente: persi alla cultura, dall’incrollabile loro latitanza non li riesumerebbero nemmeno le trombe del Giudizio.
Vincenzo percorre la parabola futurista sulla traccia del Recital costruito in anni fecondi insieme con Giorgio Emiliani, Paolo Puppa e altri accademici dell’Ateneo veneziano. Ci osserva, dalle foto d’epoca sullo schermo, il gruppetto di austeri signori bassini e scuri in bombetta, vestiti con borghese decoro, come “in gita alla Fiera di Milano”. Difficile pensarli artefici della prima Avanguardia italiana (unico seme italiano nel vivaio delle avanguardie), ribellista e libertario movimento totale che abbracciò “arte e vita, costume e malcostume”, che sognò un mondo guidato dall’Arte ed ebbe in sorte “la sfortunata e autodistruttiva era del regime fascista”.
Tiravano la vita coi denti - dice Vincenzo - e alcuni facevano più o meno la fame, ad eccezione di Marinetti, di famiglia benestante e di matrimonio danaroso. Eppure dalla vorticosa energia profusa nella vita e nell’arte essi “partoriscono un nuovo secolo” (Bontempelli).
E se tutta la cultura del Novecento - letteratura, poesia, teatro, musica, arti figurative, moda, costume - è loro debitrice, essi - pur se più "fortunati" dei Futuristi russi - sono troppo radicali innovatori per un paese tradizionalista (non certo per il resto del mondo) che li condanna ad una sorta di lunga damnatio memoriae (almeno fino agli anni ‘60).
Perchè rivoluzionaria e dissacrante è la loro utopia (impensabile, nell’italietta pretigna – di allora, e di oggi ancor peggio - vagheggiare, ad esempio, lo “svaticanamento” del paese…) e loro bersaglio è l’insensatezza degli assetti costituiti, da rifondare nei modi più radicali e spettacolari: dalla riformulazione di ogni aspetto dell’arte e della cultura alla destrutturazione linguistica; dall’”assoluta originalità novatrice” per la scrittura drammatica (“Noi vogliamo che l’Arte drammatica non continui ad essere ciò che è oggi: un meschino prodotto industriale sottoposto al mercato dei divertimenti…”), al superamento dell’armonia musicale e delle sue leggi (L’Arte dei rumori di Luigi Russolo).
Ed è un pullulare di Manifesti che seguono quello marinettiano del 1909: manifesti della Pittura, della Cinematografia, del Teatro (Sintetico, Aereo, Visionico, Tattile, della Sorpresa, Magnetico, di Varietà), dell’Architettura, della Danza, della Musica; fino alle ricerche coreografiche e scenografiche di Depero e Balla (ideatori pure di un manifesto della Ricostruzione futurista dell’Universo).
“Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti – così Marinetti narra la notte che vede la nascita del suo Manifesto – (…) Andiamo diss’io, andiamo, amici, partiamo! ( … ) Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto vedremo volare i primiAngeli!...”.
Ben oltre le puerili semplificazioni che parleranno di modernolatria e di adorazione della macchina, è piuttosto l’impeto prometeico dell’uomo nuovo che esalta Marinetti e i suoi, e la Macchina non solo è metafora di ritmo e avvenire, ma: “Per macchina, io intendo uscire da tutto ciò che è languore, chiaroscuro, fumoso, indeciso, mal riuscito (…) per rientrare nell’ordine, nella precisione; la volontà, lo stretto necessario, l’essenziale, la sintesi”.
Da una macchina finita a ruote per aria in un fossato a Milano - per schivare due ciclisti - lo avevano in realtà tirato fuori, Marinetti, pochi mesi prima e l’episodio divenuto aneddoto entra di peso nel progetto rivoluzionario del Manifesto: l’uomo estratto infangato - cencio, sozzo e puzzolente (scrive) - dalla macchina capovoltasi per evitare due “noiosi” ciclisti - la tradizione decadente! - è l’uomo nuovo futurista che guarda trionfante la nuova era: “Noi, contusi e fasciate le braccia ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra”.
E “L’aeroplano” di Ardengo Soffici è “Mulinello di luce / (…) Crivello d’oro girandola di vetri venti e rumori ”; Aldo Palazzeschi - “teppista letterario” - si diverte, dalla sua, a demistificare modi e forme poetiche tradizionali (Il poeta si diverte, / pazzamente / smisuratamente. Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire…); a disarticolare la narrazione (l’Uomo di fumo nel Codice di Perelà) perché ne emerga quanto di insensato c’è nei valori costituti; a immettere - col “Manifesto del controdolore” - un’idea di vita in cui il riso, vera forza motrice dell’universo, è più profondo del pianto; a formulare con ironia una poesia antipoetica: unica possibilità di poesia che resta al mondo moderno è quella fatta con le parole del quotidiano, quella che mette in scena le ossessioni e le nevrosi della società urbana (“La passeggiata”: Andiamo? / Andiamo pure /(…) Grandi tumulti a Montecitorio / il Presidente pronunciò fiere parole. / tumulto a sinistra, tumulto a destra / (…) Luigi Cacace, / deposito di lampadine /(…) Giacinto Pupi, / tinozze e semicupi. Pasquale Bottega fu Pietro, /calzature. / Torniamo indietro? / Torniamo pure).
Scuotere insomma l’Italia “a suon di schiaffi e dinamite” (G.B Guerri ) è la missione dei Futuristi: ma il marinettiano Zang tumb tuuum è appena un “urlo di italico candore”, la cui portata rivoluzionaria sarà presto surclassata dal totalitarismo fascista e da un progetto politico che ne raccoglie solo gli aspetti superficiali e agli intellettuali assegna ben altro compito che la missione liberatoria dell’individuo da essi vagheggiato.
“Ci credeva davvero - scrive, di Marinetti, G.B.Guerri - e in questo suo sogno non c’era niente di sbagliato. Era il sogno di un artista, non di un politico”.
Un po’ di quella “caffeina d’Europa”, di quell’impeto rivoluzionario restituirebbe forse dignità e vita al nostro deserto presente: certo alcune particelle ne sono piovute qui oggi, grazie al nostro attore-solista e per noi l’aria intorno si è come ionizzata. “Andiamo? / Andiamo pure”.
Infine,
io ho pienamente ragione,
i tempi son cambiati,
gli uomini non domandano più nulla
dai poeti:
e lasciatemi divertire!
(Aldo Palazzeschi, Lasciatemi divertire - Canzonetta)
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