OFFICINA TEATRALE 2017/18
Viaggio cosmico-letterario
I FIORI DEL MALE di Charles Baudelaire
I FIORI DEL MALE di Charles Baudelaire
di e con
Vincenzo Di Bonaventura
Ospitale delle Associazioni
Grottammare Paese Alto
24 Maggio 2018 h21.15
“Terapia di poesia”
Una nuova seduta terapeutica, quella di stasera con Di Bonaventura attore-solista-regista: è “terapia di poesia” e dovrebbe entrare nei protocolli farmacologici, se è vero che ne usciamo ogni volta con l’âme calme et ravie, l’anima calma e serena come gli umani convocati da Manitù nel baudelaireiano Le Calumet de Paix , La pipa della pace.
Baudelaire e Les Fleurs du Mal: l’attore ce ne mostra religiosamente l’introvabile edizione, gloriosa di decenni, curata niente meno che dall’Auerbach. Quello di sempre il monumentale armamentario acustico, di sontuosa anzianità e austera imponenza; di nuovo c’è il dispositivo che replica Vincenzo sullo schermo e lo renderà per noi oggi - dice - “un po’ più virtuale che reale”.
Nella sua postazione che non è la Cava Rossa di Manitù - ma ugualmente dominando lo spazio, affiancato dall’immancabile djembè - l’attore distilla dalla visionarietà poetica quella “musica” che può, essa sola, ricomporre le disarmonie dell’universo.
Se “il linguaggio poetico fa vedere le cose, facendosi vedere esso stesso” (É.Benveniste), quello di Baudelaire è come nessun altro rivelatore di abissi umani (“Gli abissi umani sono perlustrabili”, fu detto per Dostoevskij); è discesa dentro di sè e dentro le pianure della Noia, profonde e deserte, ed è al contempo disperato slancio verso l’alto, verso Cieli squarciati come pietre di greto. *
Non per caso è con l’apostrofe Al Lettore che si apre il Recital: Ogni giorno all’Inferno senza orrore, d’un passo, attraverso mefitiche tenebre discendiamo (“Egli ha nominato la morte”, scrive di lui Y.Bonnefoy). Satana Trismegisto - il tre volte grande - regge i fili dei fantocci che siamo, si materializza nel Tedio, prende forma nell’orrore e nell’estasi del vivere, ossimoro eterno in cui il poeta riconosce nel lettore un fratello, Tu questo molle mostro conosci al par di me, / o ipocrita lettore, mio simile, fratello!
È subito dopo che, per contrasto, l’attore ci immerge dentro il respiro epico e umanissimo de “ Le Calumet de Paix - imité de Longfellow”.
Vi appare Manitù - Signore della vita, Divinità superba - che, col segnale di fumo lento e fragrante della pipa forgiata da un brandello di roccia, convoca alla sua presenza i popoli (“O eredi miei, progenie diletta e pervertita, / figli miei, ascoltate la divina ragione). Stanco delle horribles guerres degli uomini, del loro farsi da cacciatori, assassini, e delle loro anime scisse, della loro preghiera che si fa maleficio, ordina ai suoi poveri figli - à ses pauvres enfants - di fumare insieme la pipa della pace, perché “forte è solo chi unito e solidale visse” (Et c’est dans l’union qu’est votre force).
È la stessa, utopica leopardiana social catena de La Ginestra, l’unione nella franca virile consapevolezza del “comun fato”, del “mal che ci fu dato in sorte”.
Baudelaire è coscienza stessa del mondo moderno, testimone della sua scissione fra opposti che si attraggono - male e bene, bellezza e orrore, estasi e ripugnanza, assenza di Dio e ricerca del divino - e di questa ambivalenza epocale la poesia porta il segno nel “solco di profonda malinconia”, nel suo essere bifronte - Anatemi e osanna sono un’eco che mille anfratti si rimandano - “come lo è la situazione dell’esistenza” (Kierkegaard).
L’Arte, questo singhiozzo ardente che d’evo in evo avanza, è testimonianza di dignità - la più alta che l’uomo possa offrire (C’est vraiment, Seigneur, le méilleur témoignage) - e sublimazione dell’unità infranta: è Delacroix affollato d‘iniqui angeli, Goya incubo colmo d’arcani senza fine; Puget, mesto monarca di un bagno di forzati; ed è Leonardo, specchio scuro e profondo dove appaiono / angioli a incantarci, soavi; è Rubens, in cui la vita in fervidi palpiti si delizia; è Michelangelo (Michel-Ange) ove Titani / s’accozzano con Cristi.
L’artista crea mondi di bellezza, pur se la Bellezza è insieme infernale e divina, è redenzione e dolore; essa è armonia dei contrari – Hai dentro agli occhi l’alba e l’occaso – così come l’Amore è voluttà e amarezza, null’altro che un letto d’aghi, e la Poesia è incurabile passione che il Poeta paga con la follia.
Quel libro “atroce” - così egli chiama Les Fleurs - è dunque a un tempo poesia del male e della coscienza infelice, poesia dell’umana condizione, compianto per l’uomo figlio di un secolo avvilito, per l’umanità che ha perduto “ciò che non si ritrova più”, passione per la vita e per “l’uomo con le sue storture, con la sua grazia ammalata, con le sue impotenti aspirazioni”, come scrisse dopo la morte di lui il poeta Théodore de Banville.
Così, nel Viaggio a Citera, il pays fameaux dans les chansons, dove il vascello approda come angelo ebbro di luce e di sole, su cui Venere ancora aleggia come un profuso aroma, ecco l’isola svelarsi una pauvre terre, una magra riviera, mentre sullo sfondo, nera come un cipresso “una forca a tre bracci, ecco, ci si rivela”. E in quell’allegoria si addensano l’umana pietà del poeta - Ridicolo impiccato, t’è vicino il mio cuore - e la coscienza d’un dolore comune e irreparabile.
Forse è vero che “la poesia cannibalizza il poeta”, e Baudelaire brucia se stesso nell’esperienza poetica: la sontuosa architettura dei versi (“il passo inesorabile, e sempre desiderato, dell’alessandrino … categorica necessità d’un metronomo” scrive G.Bufalino) e insieme la ferocia distruttiva, la tragica coscienza del dolore e del male, sono il “sacrificio di sé fatto alla poesia” - la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione -
Essi sono al tempo stesso la sua rivoluzione poetica - nasce qui la poesia moderna - e la sua eredità.
Forse ancora, da quella tomba a Montparnasse esala la preghiera ardente che al poeta ispirò l’immacolato azzurro di Citera: Dammi forza bastante, Signore, che la carne / io possa e il cuore mio mirar senza vergogna!
* Tutti i versi citati da Les Fleurs du Mal sono nella traduzione di Gesualdo Bufalino
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