OFFICINA TEATRALE 2017/18
Viaggio cosmico-letterario
Assassino senza movente (Tueur sans gages)
di Eugène Ionesco
di e con
Vincenzo Di Bonaventura
e con Loredana Maxia
Ospitale delle Associazioni
Grottammare Paese Alto
21 giugno 2018 h21.15
La città radiosa
Piove, stasera, dentro il celebrato e restaurato Ospitale: dal polistirolo delle controsoffittature stile macelleria il breve scroscio estivo gocciola sugli attori, involontaria metafora di questa Grottammare, sorella della ioneschiana Città radiosa nella sua posticcia elettoralistica spettacolarità.
Ed è ancora, con Di Bonaventura, appassionata testimonianza di un teatro “lontano da padroni e schemi”, lontano dal quel “teatro mortale” - nella definizione di Peter Brook - tradizionale e accademico il cui primo effetto è “la noia”.
È, il suo - e quello della ricerca avanguardistica di Artaud, Bene, Brook - teatro del soggetto-attore, che non impara il testo ma lo dis-impara, non lo prepara ma lo s-prepara, operando una sorta di “attentato al testo” che annulli la distinzione autore/attore e crei una diretta relazione fra attore e spettatore: così intensa e alchemica che quest’ultimo, secondo Carmelo Bene, “non dovrebbe poter mai raccontare ciò che ha udito, ciò da cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro”.
Che sia il "Teatro immediato" di Brook o quello “totale” di Bene, esso è sacrale “luogo di purificazione” (nell’utopia di Artaud) da cui lo spettatore può farsi travolgere e violentare, e il cui scopo non è rappresentare il mondo bensì trasformarlo; intorno al testo e alla sua infinita rappresentabilità, l’attore si muove non saccheggiando bensì lavorando per sottrazione - “Rimuovere ciò che non è strettamente necessario e intensificare il resto” - con l’obiettivo di “mettere in scena quel che manca nella vita quotidiana”.
Così, dice Vincenzo, l’artista dis-impara il testo sottraendolo alle “falde fangose del teatro-birignao”; re-agisce con esso sul piano emotivo, lo trasforma (il testo è l’attore, il testo è la voce, per Carmelo Bene) e i grandi artisti sono perciò stesso grandi improvvisatori - dunque autori - come Totò, Bene, Fo.
Non fanno teatro, sono teatro: “la teatralità esige la totalità dell’esistenza”.
La macchina attoriale Di Bonaventura-Maxia vive stasera il testo di Ionesco per scarnificazione e intensificazione: raggrumati in uno solo i tre atti di Assassino senza movente, l’implacabile climax si dispone in una sapiente geometria - dialogo iniziale, azione centrale e convulsa, inesorabile epilogo - di cui gli attori sono artefici più che interpreti.
Con Di Bonaventura/Berenger (“Età media, cittadino medio”) e Maxia/Architetto-Funzionario (“Età indefinibile, età da funzionario”) è come venir messi per incantamento nel piccolo teatro parigino de la Huchette al Quartiere latino, dove Ionesco si rappresenta con continuità fin dalla metà di quel nostro secolo breve nella cui certezza d’onnipotenza lo scrittore vedeva naufragare ogni umanismo.
L’ossessione della morte (da la quale – francescanamente – nullu homo vivente pò skappare), del suo inesorabile esserci-e-basta, dell' angoscioso incombere sulla tragicommedia esistenziale, è il fantasma che emerge prepotente dalla Città radiosa, dall’artificioso splendore che copre la mistificazione e il delitto, la putrefazione dei corpi galleggianti nel lago.
L’orrore si palesa con discorsiva naturalezza - Vede quel laghetto? (…) È là, là dentro che se ne trovano tutti i giorni, due o tre; annegati. (…) Ce n'è addirittura tre, quest'oggi – che al fluviale lirismo di Berenger oppone la banale logica di alienato buon senso dell’Architetto-Funzionario (“…Ci saranno sempre bambini sgozzati, vecchi affamati, vedove lugubri, orfanelle, moribondi (…) e massacri, e inondazioni, e cani investiti... Cosi i giornalisti possono guadagnarsi il pane. Tutto ha il suo lato buono. In fondo, è il lato buono che bisogna guardare”).
Nel precipitare dell’azione verso il compimento - alle nostre spalle la rumorosa corsa di Berenger/Di Bonaventura alla ricerca di un gendarmeria ricorda il tumulto del Rinoceronte - Maxia ha ora le sembianze di Comare Pipa candidata politica - Allevatrice d'oche. Una forte personalità - arringante una folla ottusa e plaudente.
Da sotto il floscio cappello agita e sparpaglia i fogli del programma, del suo contratto (!) coi cittadini-elettori - Vi prometto di cambiare tutto. Per cambiare tutto bisogna non cambiar niente. Si cambiano i nomi, non si cambiano le cose. (…) Perfezioneremo la menzogna (…) e tutto sarà cambiato, grazie a me e alle mie oche. La tirannide restaurata si chiamerà disciplina e libertà (…). Quanto agl'intellettuali... noi li metteremo al passo dell'oca! Viva le oche! -
Nel tempo raggelato dell’epilogo Berenger è solo con l’Assassino, presenza immobile e ghignante, avviluppata nell’enorme lugubre pastrano (opportunamente: sulla scena che si fonde con la vita, il soffitto continua a gocciolare…).
Solo il suo ghigno sinistro risponde all’eloquenza patetica, ai tristi luoghi comuni di Berenger che vorrebbe dissuaderlo dal crimine - Forse uccide tutta questa gente per bontà! (…) Forse vuol guarire la gente dall'ossessione della morte? (…) Lei vuole probabilmente praticare una sorta di eutanasia universale? (…) Lei è un essere umano (…) lasci stare la gente, la lasci vivere stupidamente…
Il disperato Mio Dio, non si può fare niente!... Che cosa si può fare?... Che cosa si può fare?... del cittadino-medio Berenger, mentre il colpo dell’Assassino sta per abbattersi anche su di lui è la resa: l’assurdità del vivere e del morire, schiavi di forze e volontà indipendenti da noi stessi, è la sola certezza.
“Il teatro è una discesa agli Inferi, le mie paure sono quelle degli altri”, dirà Ionesco; e nella distorsione grottesca, violenta, eccessiva della realtà e del quotidiano che sulla scena si realizza, forse come lui possiamo trovare il coraggio di “guardare in questo baratro e riderci sopra”.
Sara Di Giuseppe - 23.6.2018