PAOLO CONTE
“Cinquant’anni di azzurro”
Teatro Europaditorium – Bologna
11 dicembre 2018 h21
L’amore è uno stregone
isterico magnifico
carezza di una mano che semplifica
(“Elegia”- P. Conte, 2004)
“La vecchiaia può portare anche un po’ di follia”, dice in un’intervista recente. Vero, se come la sua - classe ’37 - è abitata dal genio; se vi troviamo intatti la poesia e l’ironia, la fantasia e il realismo magico di un indomito ”novecentista errante” per il quale il tempo forse non esiste; se quella sua musica distilla ancora sull’attualità frettolosa melodie e ritmi saldamente radicati nell’identità culturale europea del ventesimo secolo.
I suoi “50 Anni di Azzurro” sono anche qui, condensati in quest’ora e mezza, nel teatro al completo, nella voce sghemba dello chansonnier, fra il pubblico che alla prima nota riconosce ogni brano nei geniali arrangiamenti e si abbandona alle sue vibrazioni o l’appoggia a momenti del proprio vissuto.
E tutto il meglio è già qui, in quel percorrere stili e generi e ricomporli in lampi di prestigiatore. Forse perché è anche pittore, Conte disegna in testi e in note il suo reale e il nostro: sciabolate di luce, ellissi di parole, abbozzi che aprono all’immaginario e sembrano piantarti lì in sospeso, come certi gatti o certi uomini / svaniti in una nebbia / o in una tappezzeria; l’ascoltatore è servito, a quel filo può agganciare la sua “toponomastica privata”, srotolarne un capo e riavvolgerlo a piacimento, ritrovarvi commozioni e allegrie, un tempo fatto di attimi / e settimane enigmistiche…
Sul grande palco niente effetti speciali, niente dei barocchismi con cui i mediocri di successo farciscono il nulla. La sobria sapienza delle luci basta a dar risalto ai musicisti superlativi alle sue spalle, ai solisti che a turno lo affiancano in preziosismi senza ostentazione; lui, è il maestro che sembra suonare in un club per pochi amici, la voce ruvida e scoscesa che conosciamo, trascolorante dal recitativo al canto e viceversa, lo sberleffo gracchiante ma elegante del kazoo (il buffo strumento che “dopotutto è rimasto la mia orchestra preferita”); e l’orchestrazione sontuosa che nel conclusivo Diavolo Rosso si dilata in una frenesia di percussioni e corde, in superbi assolo di sax e poi di violino e poi di fisarmonica ad evocare voci dal sole e altre voci… altri abissi di luce / e di terra e di anima…
Musicisti talmente “storici” e in tale simbiosi che non stupirebbe se oltre a suonare vivessero anche insieme, e che in quindici formano un’ orchestra vera e completa.
Le parole dondolano pigre tra poesia e prosa, sublime e quotidiano, o rapide volteggiano nel recuperare il cielo ad alta quota, maliziose occhieggiano dietro la porta del pomeriggio.
La musica le contiene in tanghi e milonghe dall’eleganza di zebra, in blues che virano in tango, rumba o “allegria del tango”, e in jazz naturalmente (“Sono un ragazzo del dopoguerra, la generazione degli amanti del jazz”); ne fonde il meglio in accordi, arrangiamenti, tempi e risonanze, evoca più che descrivere, e sempre va a smuoverci qualcosa nel profondo.
Poesia allo stato puro, è stato detto della musica di Conte; ma anche che non c’è bisogno di chiamarlo poeta e di dargli questa pesante aureola in più… E certo non servono etichette al multiforme troviere che in musica disegna il colore di un’epoca, e di questa il quotidiano e l’altrove, il tinello marron e le palme inquietanti e inquiete, la provincia “universale” coi suoi umori e i suoi miraggi d’evasione, dove i ballerini aspettan su una gamba / l’ultima carità di un’altra rumba.
Che siano enigmatici ed ellittici o realisticamente ancorati allo spazio fisico - un tram, un albergo, un taxi più un telefono più una piazza… - nei testi affiorano memorie e attese, il duplice binario del sogno e del quotidiano su cui la vita corre, deragliando a volte.
Ci si incontra - ci si ama forse - ma sempre l’amore balena come distanza da colmare, viaggio da intraprendere o fuga - Via via, vieni via di qui / niente più ti lega a questi luoghi… - È gioco d’azzardo - perché volersi e desiderarsi / facendo finta d’essersi persi - è sogno o intuizione come la notte, come il Mocambo; l’amore è uno stregone: cerca rifugio nella lontananza, lo sovrasta il presagio della delusione - certe parole sanno di pianto / sono salate, sanno di mare… E l’atto d’amore è un eros effimero, lampo fuggitivo senza storia.
È sobrio e caldo il congedo di Conte dal suo pubblico che in piedi lo applaude; una comunicazione intima e profonda ha pervaso tutto il concerto, ogni parola in più sarebbe di troppo. Bisognerebbe tutelarlo come patrimonio dell’umanità un incontro così, assaporato nello spazio accogliente e arioso di un teatro, in composto entusiasmo senza scalmanati chiassosi feedback da star a pubblico.
Ci resta quella musica, la sua, quei cinquant’anni di azzurro che “puoi portarti in tutti i viaggi come un libro prediletto di poesie”.
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