28/02/19

IL SUONO IN MOVIMENTO

LA DANSE DU SOLEIL

Geneva Camerata
David Greilsammer  Direttore
Juan Kruz Díaz de Garaio Esnaola  Coreografo e ballerino solista

Centro Cultural de Belem - Auditorium Grande
Lisbona, 22 febbraio 2019

Jean-Baptiste Lully     -  Le Bourgeois Gentilhomme  - Suite
Wolfgang A. Mozart    -   Sinfonia n.40 in Sol minore, K550


IL SUONO IN MOVIMENTO


       Fanno il loro ingresso in gruppi, i trenta musicisti, disponendosi sul palco come a far quattro chiacchiere tra loro. Nessuna sedia canonicamente disposta come in ogni orchestra: suoneranno - a memoria - in piedi e muovendosi coreograficamente, ad eccezione di violoncelli contrabbassi e percussioni. 

      Con silenzioso preciso sincronismo i gruppi sparsi si aggregano poi, e dispiegano i seducenti ritmi della Suite di Lully: violini viole flauti clarinetti trombe fagotti oboi suonano percorrendo il palco con movimento coreografato, destra-sinistra, sinistra-destra; Greilsammer li dirige procedendo con loro sulla stessa linea, fronte al pubblico. Finchè lirrompere del ballerino solista frantuma lunità del gruppo e impone di qui in poi uninterazione costante tra coreografia e strumenti, fra danza giocosa, energica, elegante e rigore esecutivo dei musicisti.

       Ed è musica sfavillante, quella di Jean Baptiste Lully per le danze della comédie-ballet Le Bourgeois Gentilhomme di Molière. Superlativa scintilla scoccata dal fecondo toccarsi di due opposti: il musicista-ballerino, fedele interprete del programma celebrativo del potere, arbiter assoluto della musica alla corte di Luigi XIV, e il grande drammaturgo-attore che nel Bourgeois Gentilhomme satireggia impietoso lo stolido ambiente cortigiano.  Les deux grandes Baptiste, li chiamarono.

      E il ritmo trascinante della Suite brilla nella prorompente contemporaneità del ballerino solista: ogni distanza si dissolve in quella corporea espressività, il tempo di Lully diviene il nostro e quel palco può essere ugualmente lultramoderno Auditorium de Belem o il Teatro del regale Castello di Chambord.

       Viaggio ipnotico dunque, che si fa quasi onirico nella seconda parte, nel colore introspettivo della mozartiana Sinfonia K550, voce divina di un genio sofferente e sua estrema eredità artistica. L inquieta serenità dellapertura si diffonde dai musicisti disposti in platea in ordine sparso, risale quindi lentamente il palco dove vibra la nodosa fisicità del ballerino; gli svolgimenti armonici della partitura sono tuffi negli abissi dellanima  che la danza accarezza e asseconda riflettendone lombra e la luce, illuminandone l’”apollinea meraviglia, la purissima bellezza di vaso greco. 
       
       E si fa audacia interpretativa questa coreografia che spinge i musicisti in piedi sulle sedie, li distende a terra col gesto energico e perentorio del danzatore (e suoneranno distesi, i trenta incredibili portenti). Abbandoneranno anche le scarpe, restando scalzi fino alla fine.

      Musica e danza tracciano insieme architetture e corrispondenze, e lurgenza espressiva diviene in musica gioco di contrappunti, nella danza passione trattenuta di commovente bellezza: la fusione è completa e incontra il suo acme nel corpo seminudo del danzatore, quasi scarnificato ligneo Cristo morente, issato in alto dai musicisti in un caravaggesco possente chiaroscuro finale. 

      Non sorprende che il pubblico, ripresosi dal rapimento, applauda in piedi con entusiasmo e lungamente. Lunicità fascinosa dello spettacolo e leccellenza dellesecuzione fanno dire a ragione che La Danse du Soleil rivisita e ridefinisce completamente lesperienza del concerto nel secolo XXI.

        E se mai abbiamo pensato alla difficoltà del suonar camminando (magari nellosservare formazioni bandistiche a spasso nei paesi o in parata) è per non aver ancora visto i musicisti di Geneva Camerata, il loro suonare superbamente muovendosi nello spazio scenico, il loro tracciarvi geometrie e arabescare coreografie, in piedi su sedie o perfino distesi, né un grande direttore dirigere cavalcioni sulle spalle di un ballerino  

       
Sara Di Giuseppe - 27.02.2019


19/02/19

LA RUOTA "CHIODATA"

[Grandeur sambenedettese]


          Un gigantesco equivoco.

          In Piazza Mar del Plata il Consigliere Chiodi non intendeva mettere una Grande Ruota dei Divertimenti alta più di 40 metri “…da cui, per ragioni turistiche, potesse ammirarsi [sublime meraviglia] MARTINSICURO

No certo! Il consigliere pensava invece ad una Grande Ruota degli antichi funai sambenedettesi! [Sì, alta più di 40 metri]. 

Anzi, preso dai ricordi, forse in origine meditava di collocarla proprio lungo lAlbula, dietro alla Palazzina Azzurra.

          Perché, diciamo la verità, le ruotonedei divertimenti ormai ce lhanno tutti, hanno pure stancato: Parigi-Londra-Vienna-Tokyo-Mirabilandia perfino Ancona ce lha. 

Una Grande Ruota dei Funai ancora nessuno! 

          Prevalentemente di legno come quelle originali estintesi negli anni 50 (quanti di noi ragazzi le girammo per necessità, per punizione). Meno pesante quindi di una Ruota dei Divertimenti, e ben stabile sul terreno sabbioso della piazza oggi parcheggio (o su quello dellAlbula). 

E senza bisogno, è ovvio, di ricorrere ai carotaggi del geologo-a-chiamata giacchè ling.Polidori del Comune non ha competenze (sic): non sa - ed è curioso, per un ingegnere - che la sabbia è sicura; che tutta San Benedetto è costruita saldamente sulla sabbia; che - data la stabilità di questa - le fondazioni delle nostre antiche case quasi non esistono, con la sabbia letteralmente a portata di mano

           Una Grande Ruota dei Funai, oh yes! Con 15 mila luci (visibili da Martinsicuro). Ma a propulsione umana, secondo tradizione: da girare rigorosamente a mano

Alla grande manovella, sindaco assessori consiglieri - Chiodi al posto donore sintende - tutti in fila a girare, fiatone e sudore e lingua di fuori. Mentre il popolo in festa incita in coro (come una volta): vòota, cì vòota, cì 


PGC - 19 febbraio 2019


13/02/19

STUDIATE!

[Ferrovia Adriatica: barriere antirumore à la carte?]


        I treni fanno rumore, bella scoperta. Ma se i treni dobbiamo tenerceli, non resta che intervenire sul frastuono che provocano. Tema vecchissimo e ciclico, che ri-appassiona le genti della ferrovia, le fa tornare cittadini-cittadini, non solo dormienti, non solo votanti

        Ariecco così le barriere antirumore, da sempre spacciate come unica soluzione: sorta di invalicabile (doppio) muro di Berlino o - la scelta è ampia - muro messican-trumpiano, muro Marocco-Sahara Occ. , o tanti altri. 

Altezza tot metri, qualche finestra fissa da cui nessuno mai saffaccerà, e meno male senza filo spinato. Oscene come quelle dellautostrada qua vicino, muraglia industriale plastico-metallica-continua che incarcera boschi case e animali senza attenuare un bel niente, chiedere per credere: anzi, per sapere quando è sorto o tramontato il sole, devono andare su Meteo.it. 

        Un affare gigantesco e indisturbato questo delle barriere, tanto che, saturatosi ormai il mercato autostradale, si passa con disinvoltura al ferroviario. Lo dice la Legge, e le Ferrovie sono ligie e ubbidienti, e buone

        Ma cè chi le barriere le vuole e chi no, tutti con lecite motivazioni: fioriscono contrapposti comitati che si guardano in cagnesco. Parlano, gridano, chiedono, pretendono, si raccomandano, combattono, raccolgono firme, tirano per la giacca i politici amici, fanno conferenze stampa nei bar 

Fermenti tanto scontati quanto inutili, giacchè - piatto ricco mi ci ficco - è sicuro che barriere saranno: brutte, invasive, alte-altissime-costose-costosissime che, a fronte di qualche decibel in meno - quando va bene, e per caso - angosceranno chi ci abita vicino, aggiungendo brutto al brutto, deserto a deserto, tristezza a tristezza.

       Certo che dobbiamo combatterli, i rumori. 

       Ma lAcustica che li governa non è unopinione bensì una disciplina complessa e misteriosa, quasi una scienza, le cui regole e applicazioni vanno studiate e sperimentate caso per caso.

E  lAcustica dice che i rumori ferroviari sono tra i più complicati e capricciosi: rimbalzano come una palla da rugby, si riflettono si sommano si trasformano e si amplificano, per effetto del contorno ambientale; talvolta si attenuano senza un perché. Soprattutto viaggiano! Possono fermarli le barriere?... 

       Potevamo e dovevamo provvedere per tempo ad abbassare questi rumori alla fonte: per esempio adottando materiali cosiddetti morbidi per ruote e rotaie; costruendo massicciate misto-pietrose fonoassorbenti; ripensando il profilo dei binari per diminuire le occasioni di attrito/rumore; ringiovanendo un po i nostri treni (che a guardarli e a sentirne il feroce lamento di ferraglia morente ti pare di tornare all800)  

Lavessimo fatto, non ci troveremmo adesso nellurgenza di acquistare dal fornitore di (s)fiducia milioni di salvifiche (mavalà!) barriere-per-tutte-le-stagioni, alte-basse-vetrate-colorate, da mettere magari dove e come vuole il popolo dei comitati: on demand, à la carte

    Le barriere. LAcustica, tra laltro, ci dice che: 

-  più alte di 4 metri non servono, specie se distanti dal binario oltre 3 metri: questione di traiettorie dei raggi sonori; 

-  per assorbire le onde e non farle rimbalzare non dovrebbero mai essere metalliche ma preferibilmente di legno (tavole non dure, incrociate), e spesse e imbottite e porose e mimetiche , non come quelle esili delle Ferrovie; 

-  la loro sezione dovrebbe essere curva, per trattenere i rumori in basso, che se scappano in alto non li prendi più. 

-  

        Ma le variabili sono tante, la barriera standard non esiste, la barriera è come un vestito da cucire su misura. Certi matti che studiano, poi, pensano che invece di rizzare dappertutto barriere dalla dubbia utilità, forse basterebbero delle minigonne tecniche applicate direttamente alla base dei vagoni fino a sfiorare i binari, per farcorrere anche i rumori, ma chiusi sotto il treno. Altri ancora più matti immaginano una gigantesca simil-spugna (tutta da inventare) tra il pavimento dei vagoni e i binari, che con i rumori si comporterebbe come una spugna con lacqua ma non servirebbe strizzarla in stazione

        Insomma, cari comitati del sì e del no alle barriere, studiate meglio la faccenda: poi contrastateli con validi argomenti, i politici e le Ferrovie. A quelli inutile dirgli di studiare: gli basta lignoranza, per decidere per il peggio.


PGC - 12 febbraio 2019


04/02/19

“Ariémecene a la casa”

XXXIX Inverno Teatrale Cuprense
Rassegna 2019
 
DON CHISCIOTTE
di
Miguel de Cervantes Saavedra
 
Riscrittura scenica di Vincenzo Di Bonaventura
con 
Vincenzo di Bonaventura
 
Cinema Teatro Margherita – Cupra Marittima
1 Febbraio 2019   h21.15


“Ariémecene a la casa”

 
ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati
tu continuerai a vivere come una fiamma
nel tuo pesante guscio di ferro
e Dulcinea
sarà ogni giorno più bella.
[Nazim Hikmet, 1947]

    
        Non è mai semplicemente teatro, con Di Bonaventura.  È sempre “atto totale” che supera il testo e i limiti della scrittura, le convenzioni, il birignao del teatro accademico e “mortale”, e pone al centro l’elemento umano: la sola cosa che serve, secondo Peter Brook, per fare teatro. Annullata la distinzione autore/attore (i grandi artisti sono sempre grandi improvvisatori), la relazione con lo spettatore si fa intensa e alchemica, sorta di “possessione”. 


      Come oggi su questa scena in cui l’attore solista, in continuo feedback col suo pubblico, compie il suo “attentato al testo”: non ad un’opera teatrale bensì ad un romanzo (è già un primo “tradimento”, dice); e ne forza poi la componente linguistica (il secondo “tradimento”) con l’ardito ricorso a soluzioni popolari e dialettali di rara forza espressiva. 


        Il romanzo si fa con lui “teatro di strada” (per questo le luci resteranno accese, così come sulla strada lo spettacolo si svolge di giorno) e l’attore è il giullare: figura scomoda, in antico, spesso migrante perché perseguitata, embrione della migliore tradizione teatrale italiana, quella Commedia dell’Arte - “il più bel teatro del mondo” - i cui grandi postulati sono irrimediabilmente perduti.


       “Appartengo alla vecchia categoria dei teatranti che migrano”: per questo ogni luogo può essere teatro e palcoscenico, e l’attore assumere tutte le maschere e gli umori. E questa sera potrà sdoppiarsi in Don Chisciotte e in Sancho Panza, produrre da consumato giullare lo stravolgimento linguistico che assegna allo scudiero l’espressività travolgente del dialetto. Incongruente apparirebbe infatti, trasferito sulla scena, quel Sancho Panza che nel romanzo ha il parlare aulico e dotto del suo padrone: il popolano oggi parlerà, si lamenterà, protesterà, si rassegnerà in puro dialetto abruzzese, lingua originaria per l’attore che ne è  portatore sano così che di ogni sfumatura, inflessione, preziosismo nulla andrà perduto.


       E la scena diviene sorprendente laboratorio di linguistica applicata: è potentissimo questo dialetto centro-meridionale dalla fonetica proteiforme in cui le vocali - dice l’attore - in alcune zone finiscono per somigliare a fonemi stranieri o addirittura esotici; e la forza evocativa di questi codici linguistici dalle radici secolari è pari per pathos e forza drammatica a quella dei tragici greci.
       Quel dialetto è stato, nei paesi della sua infanzia, la lingua della preghiera nei “cori” delle donne oranti a pagamento, fusa ad un latino approssimato per assonanze; e lingua di ineguagliata efficacia delle grandi collettive liti paesane (la nonna, "aizzatrice" delle liti del borgo...): microcosmo di sapore arcaico che l’attore illumina col frequente grammelot - all’altezza del miglior Dario Fo - che presterà più tardi anche agli umori popolani di Sancho Panza.

        Ed è un Sancho Panza malconcio, bastonato per aver difeso il suo padrone nell’ennesima folle avventura, quello che apre la scena coi lamenti e il piagnisteo del suo pedante, infantile “Ariémecene a la casa!”, “Torniamocene a casa!”, cos’è questo vagare senza senso che ci porta solo fior di randellate… Uomo dabbene benché villano e credulone, sa misurare la distanza tra ciò che gli capita e la promessa del suo padrone “che un girar di mano lo rendesse signore di un'isola, ed egli ve lo lascerebbe governatore”.

        E un incontenibile Don Chisciotte - autoproclamatosi cavaliere errante, venturiero e prigioniero della vezzosa senza pari Dulcinea del Toboso – è quello che percorre la scena in energiche falcate, o cavalcando una pertica, per rianimare il pavido servitore (Te l'ho già detto, che tu non t'intendi d'avventure); che addita allo sbigottito Sancho trenta o quaranta mulini a vento come smisurati giganti, Io penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie (…) e se ne temi, fatti in disparte e mettiti in orazione mentre io vado ad entrar con essi in fiera e disugual tenzone.; che ridotto a mal partito e non meno malconcio dello scudiero, issato più o meno di traverso sull’asino Ronzinante - il quale se avesse avuto lingua per querelarsi non avrebbe risparmiato sicuramente né Sancho né il suo padrone - s’indirizza alla volta d’una locanda che scambia per nobilissimo castello, e per castellano l’oste, per castellane moglie e figlia… con ciò che ne consegue.


       È un vulcano di dialettali eruzioni invece, il nostro Sancho/Di Bonaventura: si dispera per il padrone che s’è fracassata la testa (s’ha squatrecchiate la coccia!...); si sganascia quando realizza che colei che il padrone ha trasfigurato nella soave Dulcinea che merita d’essere signora dell’universo intero altri non è che la nerboruta contadina Aldonza Lorenzo (Corpo di mia nonna! Che bocca che ha! Che voce!)  di petto e lombi possenti…


     Non manca tuttavia di “logica” né di metodo la pazzia del cavaliere errante che all’obiezione di Sancho (i cavalieri da lui emulati – Amadigi, Orlando – hanno avuto un buon motivo per la loro follia) risponde che Non v'è né merito né grazia in un cavaliere errante se impazzisce per qualche giusto motivo: il sublime si è impazzare senza un perché al mondo, e far conoscere alla mia signora che io mi conduco a tal passo senza causa e senza motivo…
Pazzo dunque vorrà e dovrà restare finchè Sancho non sarà tornato con la risposta di Dulcinea ad un lettera che per il suo tramite egli le invierà dopo averla firmata: “Vostro insino alla morte il Cavaliere dalla Triste Figura”. E solo se la risposta sarà diversa da quella sperata, allora impazzirò davvero, e come tale non sarò più capace di sentire affanni
   
        Ma lo struggente eroe che l’attore ci restituisce nella sua interezza è oltre la comicità, è oltre la forza giullaresca che travolge la platea.  
El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha a cui “per il poco dormire e per il troppo leggere si prosciugò il cervello”, è forse la prima figura di anti-eroe, lontano dall’eroismo dei poemi medievali, emblema di una modernità a cui solo restano incertezza e disinganno, tramontata ogni fiducia nella razionalità dell’agire umano.

     Ha un’anima trasparente dice di lui il buon Sancho (Dostoevskij vi si ispirerà per “L’Idiota”). Null’altro poteva, il Cavaliere della Mancia, se non seguire “la legge che batteva nel suo cuore”, perché quando si è presi da questa passione / e il cuore ha un peso rispettabile / non c’è niente da fare, Don Chisciotte, / niente da fare / è necessario battersi / contro i mulini a vento”. (N.Hikmet).

     È nell’insanata “scissione tra coscienza e vita” la modernità dello sgangherato hidalgo dell’eterna giovinezza, del suo intatto cavalcare attraverso i secoli per arrivare a noi così attuale. Soprattutto stasera, e su questa scena.


Sara Di Giuseppe - 3 febbraio 2019