HENRY HEY tastiere
CHRIS MCQUEEN chitarra
JASON “JT” THOMAS basso
KEVIN SCOTT batteria
COTTON LAB – Ascoli Piceno
15 marzo 2019 h 21,45
www.cottonjazzclub.it
Funk, Jazz Fusion, Contemporary Jazz, Free Jazz, Jazz Rock, Pop Jazz… e tanto altro non etichettabile: è il funambolico repertorio dello straordinario quartetto newyorkese.
Sulla base di paradigmi standardizzati è certo un po’ estremo per noi tapini “tradizionalisti”, un po’ rumoroso per le nostre golose orecchie pigre, un po’ ingessato per gli amanti di fantasie liricheggianti, esageratamente “distorcente” per chi non s’aspetta né immagina che una nota possa trasmutarsi oltre natura.
Ma quando hai talento e sei bravo, e partendo dall’antico rock anni ’60 procedi in una continua inarrestabile ricerca, senza mai tradire e sempre esplorando studiando inventando giocando osando… nascono concerti (e dischi) così.
Però ai concerti bisogna andarci, specie a questi, dove sai di rischiare. Altrimenti “ti stiri e rigiri ti storci e contorci come un fachiro al cinema” nelle solite tue convinzioni, nei tuoi schemi, nei tuoi gusti, nelle tue rassicuranti gabbie. La musica, specie questa, invece va guardata, odorata, toccata, ascoltata fisicamente. Devi fartene investire senza poter scappare: devi sentirli sugli occhi e sullo stomaco gli spostamenti d’aria e le onde d’urto vere delle percussioni e del basso, devi toccarti i timpani credendo di perderli, sobbalzare ai silenzi che scoppiano, accelerare, sospendere il respiro ai guizzi improvvisi non scritti ma inventati al momento, che sul disco non ci saranno. Perché nel disco tutto è solo più perfetto, manovrabile, ed è un peccato. Live è meglio, anzi live si deve.
Per esempio, questo disco FORQ THRĒQ non rende, può perfino riuscire deludente nella sua algida perfezione. Non perché al basso c’è Michael League anziché il gigante-rosso Kevin Scott (più dinamico e scenografico), o per la mancanza di qualche pezzo simil-blues che al Cotton ci ha inchiodati per la (quasi) “silenziosa e raffinata semplicità buddista”: no, piuttosto perché il disco non permette di godere di quell'ascolto obliquo, magnetico, imperfetto, drammaticamente volatile. Nel CD c’è un jazz godibile ma senza spezie, luminoso ma a led. Ritmiche serrate ma con la sordina, distorsioni non imprevedibili, niente cannoni dalla batteria, nessun movimento palpabile. E c’è quell'individualismo invisibile talvolta fastidioso, che dal vivo non esiste.
E tuttavia, il disco è sublime lo stesso, nella sua grafica essenziale. Certo l’autore dell’immagine in copertina è del mestiere, ma non può non essere anche un musicista, e un assiduo frequentatore dei concerti FORQ, o addirittura un loro fan scatenato.
Rigorosi cerchi concentrici bianchi su fondo nero che producono le quattro lettere, geometriche e spigolose come mai potrebbe succedere in uno stagno: la “F” ad angoli retti che “entra” nella “R” attraversando la grande “O”, la piccola “Q” al centro, solitaria, indipendente, protetta come in un fortino. Thrēq in rosso a chiudere sopra, con eleganza. Un marchio-logo probabilmente inventato in diretta, sul luogo del delitto.
Un marchio-logo forte, grintoso, squillante, esplicativo, terribilmente bello. Ma incomprensibile per chi non è stato al Cotton o ad altri concerti FORQ. Certo da premiare. Chissà se esiste un GRAMMY AWARD delle copertine dei dischi jazz dei concerti…
PGC - 21 marzo 2019
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