“OFFICINA TEATRALE” – AIKOT27 Gruppo teatrale AOIDOS
"NON SI SA COME" (ATTO I)
ovvero
Le inevitabili conseguenze di pensieri bastardi
da
LUIGI PIRANDELLO
Riscrittura scenica di
Vincenzo Di Bonaventura
con
Vincenzo di Bonaventura e il Gruppo teatrale AOIDOS
Ospitale delle Associazioni - Grottammare Paese Alto - 28 Aprile 2019 h17
”…che le cose più impossibili accadono,
e non se ne sa nulla, i veri delitti chiusi, sepolti dentro…”
(Non si sa come, Atto II)
Il Dottor Hinkfuss
“Un omarino alto poco più di un braccio, in frak, con un rotoletto di carta sotto il braccio”: è il dottor Hinkfuss, il dispotico regista che, in “Questa sera si recita a soggetto” dirigerà gli attori nella messa in scena di una ”novelletta” di quel Pirandello, “con il concorso del pubblico che gentilmente si presterà”.
Siamo in pieno metateatro - e qui Pirandello è di casa - ma Di Bonaventura è perfino oltre, se fa sì che - in questa sua riscrittura scenica di "Non si sa come" - il dottor Hinkfuss (lui stesso, stasera) trasmigri addirittura da quel dramma precedente (1930) a questo del 1934, opera della piena maturità, ultimo degli scritti teatrali (nelle lettere a Marta Abba confidava la certezza di “aver raggiunto l’apice”) e summa di tutto il problematicismo pirandelliano.
È dunque Di Bonaventura, l’Hinkfuss che dirige quest’oggi i valenti cinque attori nell’indagine tormentata, nell’incalzante processo verbale di questo “Non si sa come” che pare vivisezioni corpi e anime: nel quale la vita irrompe, scardina la scena tradizionale creando il dramma impossibile, realizzando quello che per Artaud è il fine stesso del teatro, “offrire uno sbocco ai nostri sentimenti repressi”.
Teatro esegetico, quello di Pirandello, che si fa “prodigio, seconda realtà poetica” (N.Borsellino) e disvela messaggi di portata irrevocabile.
L’apertura colloca l’azione in medias res: la presunta follia del protagonista Romeo Daddi deflagra nella conversazione concitata degli amici più cari, accolta con incredulo stupore, filtrata dal relativismo delle diverse interpretazioni. L’apparire di Romeo, poco dopo, è l’inizio di un’autoanalisi spietata, di un affacciarsi sull’abisso che è dentro di lui e in ognuno di noi: è tutt’altro che pazzo, Romeo, al contrario è un fiume in piena e arzigogola “come un professore di Oxford” (dirà Di Bonaventura).
Come in una partitura musicale, a lui è affidata l’esposizione, e i temi saranno da qui in poi sviluppati, ripresi, variati in una vera geometria concertistica, fino al tragico epilogo.
Solo in apparenza il tema è quello, banale, della gelosia e del tradimento: Romeo ha semplicemente iniziato a “vedere” e - come il Belluca de “Il treno ha fischiato” - il suo sguardo ha colto l’abisso (Vorrei sapere chi ha detto che sono pazzo. Io no di certo. Io penso ora così, perché vedo: vedo).
E l’abisso è la consapevolezza che la volontà nulla può di fronte a quegli “stordimenti della coscienza” che rendono - non soltanto lui ma chiunque - potenzialmente capace di qualsiasi colpa. È folgorazione che cala con forza sul protagonista, lo convince che nessuno possa sottrarsi al proprio inconsapevole “delitto”, compiuto al di là della volontà, non si sa come, in un momento di debolezza della carne, di oblio della coscienza. O perfino in sogno, non c’è differenza e non conta.
Conta che questi “delitti innocenti” - è l’ossimoro con cui li definisce - nel loro compiersi e persino nella loro banalità (come può esserlo un fugace adulterio, quasi non realmente voluto) svelino l’incolmabile scissione tra corpo e pensiero, istinto e volontà, tra la razionalità e le pulsioni che vivono in noi nel profondo all’insaputa di noi stessi (…Ecco, ecco, caro Giorgio, i delitti veri, caro, i delitti veri, per cui non c'è tribunali, si commettono così. Chi li vuole? Si commettono; non si sa come).
“Delitti innocenti - dice Romeo - ma veri delitti”.
La scoperta del vuoto di volontà - “Io non ero più nel mio corpo” - nel quale ha trovato spazio il tradimento (l’adulterio con la moglie dell’amico, Ginevra) è il detonatore che innesca in Romeo quel “trapanamento” della coscienza dal quale riemerge infine un antico delitto.
Il coetaneo da lui ucciso trent’anni prima, nella lontana adolescenza - richiamato appunto dal secondo “delitto”, l’adulterio - riaffiora prepotente alla coscienza: cancellato, fino a quel momento, dal non sentirsene responsabile perché a quell’atto non ha concorso la volontà (Non era stato nulla. Io non l'avevo voluto).
Se questa “scissione dell’Io” è possibile (“Due volte, due volte io non ho voluto le mie colpe e le ho commesse…”) se in tale condizione tutto può avvenire “non si sa come e la volontà non ci può nulla”, se la vita istintiva e animale sfugge alle convenzioni e alle regole senza che la volontà vi abbia parte alcuna, allora tutti sono colpevoli, poiché non può esservi chi non abbia compiuto un seppur inconsapevole “delitto”, un delitto innocente. Potrà essere un momentaneo deragliamento della coscienza, o il frutto di pensieri bastardi, un improvviso agguato dei sensi, “il corpo che s’è svegliato: come un albero!”, o perfino un sogno. Ed è un gorgo che si apre, per subito richiudersi (“Dopo, richiuso il gorgo, sepolto il segreto, nessun rimorso, nessun turbamento”).
Ma per Romeo aver guardato nell’abisso esige espiazione: se il delitto appartiene alla natura, il riemergere alla coscienza, all’irresistibile richiamo della coscienza – “giudice severissimo e intransigente” – porta con sé l’ineludibile assunzione di responsabilità, dunque la condanna. Penetrare nel proprio io profondo, dunque conoscersi, è morire. O è, peggio, la condanna della libertà, ”fuori fuori, dove non c’è più niente di stabilito, di solido… leggi, convenzioni, abitudini… più nulla…”. Egli dunque ha già scelto la sua pena: negare la vita, in un modo o nell’altro.
Il buio in sala ci restituisce al reale, ma un po’ dello sguardo allucinato di Romeo ci resta addosso: qualcuno forse ne raccoglierà la sfida e cercherà in sé lacerti rimossi di chissà quale delitto innocente, altri torneranno senza scalfitture alle proprie rassicuranti certezze. Ma questo Pirandello – che ne siamo o no consapevoli – ha lasciato su di noi la sua impronta.
Con il ritorno alla realtà, Di Bonaventura/Hinkfuss è di nuovo sulla scena: figura carismatica come Hinkfuss ma a differenza di quello non in conflitto coi suoi attori, che dal canto loro non si sono ammutinati. Non ne avrebbero motivo. Perché, come Pirandello insegna, “l’opera dello scrittore è finita con lo scrivere l’ultima parola” e in teatro l’opera dello scrittore non c’è più e c’è invece – è Hinkfuss a parlare – “la creazione che ne avrò fatta io, e che è soltanto mia” (Questa sera si recita a soggetto).
E, come sempre nel teatro di Di Bonaventura, gli attori hanno portato alla luce la nudità delle cose, dis-appreso il testo dopo averlo appreso, navigato a proprio rischio, trasmesso vibrazioni e ricreato sulla scena il gioco proteiforme della vita.
E se “la vita bisogna che consista e si muova – per dirla ancora con Hinkfuss/Pirandello – all’opera d’arte la vita gliela diamo noi; di tempo in tempo, diversa, e varia dall’uno all’altro di noi; tante vite, e non una”.*
* [L.Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, 1930]
Sara Di Giuseppe - 1 Maggio 2019
Nessun commento:
Posta un commento