Di Andrea Camilleri l’italica stampa s’è dimenticata per un mese: dopo la notizia, a metà giugno, del malore e del ricovero in condizioni criticissime, sfido chiunque a trovare sui giornali notizie o aggiornamenti nelle settimane successive. [Quand’anche la famiglia avesse chiesto riserbo e silenzio - è solo ipotesi, non ne so nulla - i giornali avrebbero potuto/dovuto ugualmente ricordarlo aprendo ogni giorno - tutti - con la scritta in evidenza e in prima pagina, pur in piccolo, o in riquadro ecc. “Camilleri è malato. Rispettiamo la volontà dei famigliari ecc…”. Ma nessuno l’ha fatto].
Ieri Camilleri muore e i giornali resuscitano: stampa, tv, informazione tutta, forza ragazzi fiato alle trombe chè oggi si vende.
È il giornalismo italiota, bellezza. Camilleri lo conosceva, nei suoi romanzi è frequente il ritratto impietoso di certa informazione: locale e nazionale, certo molto diffusa, fatta di servilismo, opportunismo, superficialità.
A volte, anche, il ritratto dei quaquaraquà dell’informazione prende in lui la forma netta ed esplicita dell’analisi socio-comportamentale: “Pirchì uno come Ragonese, e come lui tanti autri, cchiù importanti, che scrivivano supra ai giornali nazionali, facivano il loro mestiere in questo modo? Non c’era che ‘na risposta: pirchì avevano l’anima del servo. Erano gli entusiasti volontari del servilismo, cadivano ‘n ginocchio davanti al Potiri, quali che era. Non ci potivano fari nenti: erano nasciuti accussì”.
(A. Camilleri, Una voce di notte, 2012).
Oggi, è full immersion in barili di retorica, luoghi comuni, titoloni, aggettivoni. In tv e sui giornali trionfano lo Zingaretti-fratello (quello che non fa il politico) e l’annessa serie televisiva sul commissario Montalbano.
Come se Camilleri fosse lo sceneggiatore di inguardabili fiction italiote e non invece l’intellettuale profondo che è stato, l’osservatore lucido e appassionato di una realtà disumanata e tragica come la nostra, il creatore di una lingua letteraria unica e audace, tradotta nel mondo nonostante la non facile trasposizione del suo italo-siciliano in altri contesti linguistici .
E come se un romanzo di Camilleri si potesse impunemente trasferire, come è stato fatto, in un letargico sceneggiato televisivo senza perderne l’essenza stessa: che è quella forma letteraria, quella lingua di irresistibile potenza comunicativa, quella scrittura che reca il sapore antico della sua terra mentre disegna profili e traiettorie dell’oggi, di una realtà politica sociale culturale in caduta libera, alla cui perdita di umanità e di senso lo scrittore non era rassegnato.
Chissà che direbbe oggi del coro di prefiche giornalistiche, televisive, dell’informazione tutta, di quelli che senza arrossire lo chiamano il papà di Montalbano (sic) ben poco conoscendo di lui e della sua opera: del “retrosguardo abissale” che pirandellianamente coglie la doppia faccia di ogni realtà; delle architetture romanzesche lungo le quali transitano come nell’ Opera dei Pupi le stolide marionette del potere, i lorsignori e i monsignori, i gaglioffi in doppiopetto; della pietà che percorre ogni sua trama: per la vita violata, del singolo che soccombe come dei tanti spogliati e naufraghi, figli di un dio minore.
Di certo sorriderebbe, di quel sorriso divertito e saggio che nelle sue storie ricompone l’unità frantumata e ambigua del reale quando l’intrigo si scioglie e l’assassino viene - come si dice - assicurato alla giustizia.
Forse di tutto questo circo di provincia avrebbe pietà e perfino un po’ di nostalgia.
Sara Di Giuseppe - 18 luglio 2019
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