Ci siamo salutati con brindisi, aperitivi e olive ascolane – meglio, ripane – di mamma Chiarina. E di sera, fino a tardi, con allegre tombolate dove terno-cinquina-tombola si premiavano con pezzi pregiati del locale, non con soldi. Sono stati momenti sospesi, emozioni, ricordi. Ma tra gli sguardi e le voci c’era anche tanta morbida e affettuosa malinconia, in questi “festeggiamenti” d’addio alla premiata ditta ROSATI-osteria-fumeria-bar-trattoria-ristorante, dopo quasi 60 anni di “onorato servizio” alla civiltà ripana.
Ripa continua a perdere i gioielli di famiglia, ma nessuno se ne cura. Se fossimo città, o anche solo un volgare paesotto sulla costa, al posto di ROSATI spunterebbe subito - con gioia di tutti - un franchising di mutande firmate, un accecante punto telefoni, un negozio d’abbigliamento straccione o di scarpe (mai di libri), un adescoso B&B, un Compro Oro… una qualsiasi attività spazzatura. L’ennesimo non-luogo.
Qui invece guarderemo per sempre questa serranda abbassata, come tante altre in paese. Da un lato meglio così, che il peggio di cui sopra. Ma non consola. E’ che da troppo tempo ormai, da quando la vita si è imbruttita, ogni cambiamento è in peggio. Ci facciamo male da soli.
Non ci rendiamo conto - la politica, soprattutto, non si rende conto - che è un danno immenso per tutti, un peccato senza assoluzione, perdere certi riferimenti che hanno formato la socialità e il carattere del luogo. Perché è anche perdita di stile, di decoro e arredo urbano, di gusto, di calore umano.
Di storia insomma. Cose che non si trovano per caso, né si comprano.
ROSATI era più di un bar: era il nostro bistrot, il nostro pub, il nostro “Piccolo Teatro” indigeno, con tracce di Francia, d’Inghilterra, d’America.
Una dimora amica invecchiata con eleganza, di gusto vintage come si dice.
Alle pareti gli antichi manifesti d’Opera dell’800, le stampe pubblicitarie futuriste, le réclame e i loghi di whisky e cognac prestigiosi, di vini e birre come si deve, di torroni Vergani; i grandi specchi bronzati alla Moulin Rouge; le vetrinette con libri illustrati di storia locale, scatole metalliche disegnate in bella calligrafia, bottiglie artistiche, ricordi di viaggio, acquisti mirati… (e pure la “Tabella dei Giuochi Vietati”, del 1963!).
E le vissute sedie di legno, il solido bancone, le mattonelle rosse consumate del pavimento… e il profumo di caffè, battuto solo da certi stuzzicanti odori di cucina, e le voci chiarine, là dietro… E la musica, quanta ce ne sarà stata… immagino profondi giri di blues ubriaco, come sottofondo, alla Tom Waits.
Adesso, c’è chi cambierà malvolentieri itinerari abitudini e orari, chi accentuerà il proprio isolamento chiudendosi in casa un po’ prima, chi addirittura smetterà gradualmente di parlare, litigare, pensare, mancandogli quell’atmosfera “open” eppure più familiare di casa propria.
Certo non è un funerale, ma “è come se ci avessero tolto un pezzo di cuore” (copyright “Carletto”).
L’ultima sera del 31 però, tra giovani e meno giovani, in braccio ai genitori c’era anche Ginevra-anni 1, sempre sorridente e soddisfatta a smozzicare le olive di Chiarina. Incredibilmente un buon auspicio, per il 2020 e oltre, nonostante l’aria corrosiva dei tempi, no?
“Avec le temps… Avec le temps, va, tout s’en va” (Léo Ferré, 1971)
PGC - 2 gennaio 2020
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