Da Acquaroli presidente di Regione, che nel miserello comunicato da stipsi acuta (contro quelli diarroici su come loro sono bravi e belli, che da quelle stanze usano velinare ad ogni soffio di vento) parla del “valore intramontabile dei principi di libertà”; passando per l’intera stampa locale cartacea e on line (come il quotidiano che titola: “Il Comune di San Benedetto ricorda i caduti per la libertà”), è tutto un avvitarsi in doppi e tripli salti carpiati per parlare il meno possibile del 25 Aprile e, dovendolo proprio fare, per evitare di chiamare alcune cose col nome di battesimo, per esempio “Liberazione” e “Resistenza”.
Svetta su tutto il comunicato del Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale che si rivolge agli studenti parlando del “25 aprile 1945, data scelta per festeggiare la fine della seconda guerra mondiale in Italia” (sic) - finge di ignorare, o a scuola davvero non l’ha studiato, che invece si festeggia la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo - e continua parlando di “un’Italia che si è fronteggiata per le rispettive ragioni, i rispettivi sogni di cui era carica” (!) ed auspica il “superamento delle antitesi disperate, delle demonizzazioni reciproche, il riconoscimento per tutti nella propria storia….” (!) tanto che il Ministro dell’Istruzione ha annunciato una richiesta di chiarimenti al sullodato (non nuovo ad amenità del genere).
In anni sciagurati (e ancora alitanti un fiato fetido sul presente) ci provò il pregiudicato Berlusconi a proporre di chiamare il 25 Aprile “Festa della Libertà”. Qualche anticorpo circolava ancora, e fu zittito come lo scemo del villaggio. Oggi ci riprovano: nostalgici, fascisti, qualunquisti, opportunisti, ignoranti, e gli torna utilissimo il Covid.
“E quando mi ricapita?” deve essersi detto il sindaco di San Benedetto, con un sospirone di sollievo. Grazie al Covid non gli tocca vietare alla banda cittadina di suonare Bella Ciao (non che abbia dovuto sforzarsi per farsi ubbidire, negli anni scorsi); e grazie al Covid può infarcire il discorsetto annuale di sgangherate facezie come paragonare la ripresa dell’Italia di allora a quella dell’Itali(etta) post-covid (“il nemico non ha una divisa ma occupa ugualmente le nostre terre, entra nelle case, nelle scuole, in tutti i luoghi della socializzazione, semina ugualmente morte e dolore.” (Pasqualino, stai scherzando, vero?).
Vanno capiti: ai fascisti dispiace dover celebrare la fine del regime, e i trascorsi politici, le attuali appartenenze, gli atteggiamenti di certi uomini di potere - locali e non - e di certa opinione pubblica non lasciano nulla alla fantasia quanto a pulsioni e nostalgie neppur tanto represse. E se non riaprono per bene i ristoranti neanche una benedetta cena celebrativa della marcia su Roma con menu fascistissimo si potrà fare, perbacco.
Tuttavia è chiaro che il Covid ha preso a spallate il 25 Aprile pure in chi non te l’aspetti: pure il presidente Mattarella parla fuori luogo di “unità, coesione, riconciliazione” e accosta la ricostruzione del Dopoguerra al “superamento della crisi determinata dalla pandemia”.
Nossignori. Che diavolo c’entra il Covid. C’entra fin troppo nelle vite nostre e in quelle del pianeta tutto.
Ma il 25 Aprile in Italia bisognava parlare del 25 Aprile. Bisognava per un giorno non metterci di mezzo il Covid, che è responsabile di tutto ma non dei vuoti di memoria.
Bisognava che il “fascismo eterno” che Umberto Eco diagnosticò come male endemico d’Italia, per un giorno tacesse.
Bisognava che ricordassimo. Bisognerà che lo facciamo.
O la Festa della Liberazione sarà veramente morta: non di Covid, ma di “terapia dell’oblio”.
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Sara Di Giuseppe - 26 aprile 2021
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