di e con
Vincenzo Di Bonaventura
Parco Arena Sisto V – Grottammare
23 Luglio 2021 h 21
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“Uomini fummo, ed or siam fatti sterpi”
(Dante, Inf. XIII)
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È la poesia in musica di Battiato scelta dall’attore solista, a intrattenerci prima che il Concerto inizi, anche se niente è più lontano di questo mediterraneo parco d’ulivi divenuto “arena” dall’innevata Prospettiva Nevskij, né certo vedremo stasera un film di Eisenstein sulla rivoluzione.
Di rivoluzionario c’è molto tuttavia in quest’ora-e-mezza-quasi-due con Di Bonaventura: evento sismico che rovescia canoni e convenzioni di paludati recital; attoriale memoria “metabolica” che scaglia noi, pubblico, dentro “la più alta architettura linguistica che dal Trecento in qua mente umana abbia innalzato”(Di B.); macchina narrante e concertante che sposa il duttile endecasillabo alla sonorità percussiva del djembe e la partitura che ne nasce è tutt’uno col respiro possente del metro dantesco.
Sarà che “Hai l’Inferno dentro”, diceva all’allora giovane attore italiano – ma anche ehi, italiano, mafioso! … – l’insegnante britannico alla Scuola Internazionale di Teatro di Londra; sarà che a lui tredici/quattordicenne s’era impressa nella mente quella prof che si commuoveva nel leggere Dante in classe e piangeva, perfino, sulle parole di Francesca: sarà per questo - e certo per molto altro - che l’epica dantesca è stata poi magnifica ossessione per l’attore-solista e l’Inferno in Concerto ne ha punteggiato l’intera carriera artistica, sempre diverso, sempre unico, avanguardia già allora, trenta o vent’anni fa, come adesso, come stasera.
E stasera scorrono, i Canti infernali, dal primo al terzo e poi oltre, fino al settimo, all’ottavo, al nono… perché il pubblico inchiodato – dolorante - alle scomode sedie non ci pensa per niente ad andarsene, così lui continua, e con lui rischiamo di vedere l’alba dentro l’imbrunire, mentre la luna che dall’orizzonte s’alzava lenta è diventata gialla da rossa che era e ora illumina il mare giù in basso.
È un crescendo, il Concerto, e trascorre nell’oltremondo infernale dalla tonalità calda e sospesa dell’incontro con Virgilio al ribollente digrignante magma dei dannati che la pena sfigura; e sempre vi è, personaggio e narratore, il poeta: testimone che trasporta nell’aldilà la propria sostanza umana, la politica e la storia, l’irriducibile concretezza del reale e - in continuo trapasso dal particolare all’universale, nell’inesausta ricerca di significati assoluti - il poderoso messaggio umano e morale del poema.
Il djembe segue il verso o lo precede, lo avvolge e lo incastona nella sua ipnotica trama sonora e Di Bonaventura diviene ciascuna delle ombre cui la voce si contorce e si deforma nella pena: si fa roca e scoscesa in Francesca, dannata in eterno per quell’amore che a nullo amato amar perdona; s’inarca nel grido rabbioso o nell’invettiva furente, si fa sommessa nella richiesta dolente di Ciacco Ma quando tu sarai nel dolce mondo / priegoti ch’a la mente altrui mi rechi, s’innalza nella tragica profezia sul destino di quella sua Firenze dilaniata da corruzione e discordie; stride aspra e grottesca negli accenti irosi delle creature infernali, demoni e figure del mito antico e dei bestiari medievali.
Quasi due ore sono trascorse e dalla “più grande opera fra cielo e terra” e dal suo “testimone” ci congediamo infine a malincuore; la piccolissima Aurora balla ancora silenziosa ai piedi del palco, al ritmo del djembe e di chissà quale musica misteriosa che le canta dentro.
E noi: per quest’ora e mezza quasi due, con Di Bonaventura e il suo Dante abbiamo (quasi) dimenticato l’orrido palco, che li fanno grandi così per il raduno nazionale delle bande o per la festa della trebbiatura con gara di liscio; abbiamo potuto (quasi) non vedere quel suo perimetro di sbarre carcerarie coi manifesti appiccicati davanti - disomogenei e a casaccio - come alla sagra del boccolotto al ragù; l’infilata di “bandiere blu 2021” appese alle transenne, vanagloriose e stridenti con l’incuria del vialetto d’accesso; le plasticose sedie scolorite e stanche, pensate per peccatori in vena d'espiazione.
Perfino la luna, innalzandosi, ha preferito tenersi di lato, dietro gli ulivi, ai margini di questo parco benedetto dalla natura e affidato alla sciatteria comunale che sbaglia anche il nome: quel supponente “arena”, semanticamente inappropriato a una dolcemente digradante distesa di ulivi, ed evocatore piuttosto di muscolari ludi gladiatorii.
Sara Di Giuseppe - 25 Luglio 2021
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