È stato come il bel cinema di una volta, il jazz dal vivo del Trio Favata stasera: 1°tempo (continuo) – INTERVALLO – 2°tempo (idem, continuo) – THE END. E un bis per finire. Uno. Non 6-7-8 pezzi separati da applausi, INTERVALLO, altri 6-7-8 pezzi, applausi, e vari bis con gli applausi finali obbligatori benchè meritati. Come fan tutti.
Ma non sto qui a criticare questa decisione, anzi. Voglio solo dire che - senza preavviso - Enzo Favata-da-Alghero non ci ha dato scampo: 2 lunghi e intensi brani ininterrotti, uno per tempo, senza riprender fiato, né loro tre né noi. Dirà simpaticamente alla fine: siete venuti a sentirci? eh, noi suoniamo così, però vi vogliamo bene. E’ che, dopo tante prove (in reclusione) questa per noi è la “prima” libera-uscita: se ci fermavamo, come minimo rischiavamo di saltare qualcuna delle migliaia di note scritte. Così invece le abbiamo fatte tutte, giuro.
Tuttavia, nel complesso noialtri abbiamo retto bene. Attaccati alle sedie, molti. Come quando al cinema restavamo immobili un’ora intera aggrappati con le unghie ai braccioli di legno, se il film - un giallo, una commedia, un western all’amatriciana - ci piaceva da matti. Era coinvolgimento totale, il tempo non contava.
Così stasera al Cotton. Veramente all’inizio ci s’aspettava che quello che ritenevamo il primo pezzo - che stava già durando parecchio – finisse: invece no, nessuna soluzione di continuità fino all’intervallo; piuttosto “solo” un cambio di narrazione e di sguardi (e di strumenti, di ritmo, d’umore), con conseguenti cambio di scena e d’atmosfera. Come nei film al cinema.
Pure noi cominciamo a capire cose che non avremmo capito, con i canonici STOP-con-applausi. Ci saremmo distratti. Si sarebbe rotto il filo della “trama”. Siamo a un “concerto cinematografico”, mancante di immagini e parole. Visionario in spazi geografici impalpabili. Il luccicante vibrafono che con le sue ventoline a velocità variabile alterna timbri rilassati e avvolgenti a timbri metallici secchi (alla Lionel Hampton), i sassofoni che duettano con tromba/trombone fondendo suoni come in un altoforno, sono gli unici strumenti a noi “comprensibili”. Gli altri sono come nascosti (salvo l’apparizione del bandoneonino di Favata): virtuali, ibridi, generati dall’elettronica a comando che – ne dubitavamo – può produrre magia e mistero.
Suoni finora inascoltati ma confidenziali, capaci di costruire musica sghemba, sgusciante, brutale, o matematica (alla Bach, ma senza malinconia). Guarda, mi tornano vagamente il mente tracce di “Trieste” del Modern Jazz Quartet, quel jazz anni ’60-‘70 un po’ seppellito, misto di eretico free-jazz e di soul, però qui rinfrescato da dissonanti voci di Sardegna, sapori etnici d’India, d’Africa, e di altre culture che non saprei. Pare la sceneggiatura acustica di un film-documentario da atlante di scuola, girato forse in una foresta, forse in un deserto, forse tra i ghiacci. Dove è il tempo che suona di continuo, senza confini, senza applausi di disturbo, mentre “il cielo è sempre più blu”…
Quando succede, “buona la prima” sentenziano sul set. Allora, buona questa “prima” di Enzo Favata Trio! Ajò!
[Foto di Ronan Chris Murphy]