“Ci sono desideri che diventano inquilini dormienti…”
[João Reis Costa]
Due coreografi, il portoghese Miguel Ramalho e il fiammingo-marocchino Sidi Larbi Cherkaoui, i loro trentadue magnifici interpreti, e la danza: che trasforma i corpi in musica e la musica in movimento; che scompone il reale e vi penetra per ricrearlo, ne illumina i frammenti, sgretola il quotidiano perché fluisca nell’universale.
Davanti a noi scorrono flussi di solitudini e memorie, di smarrimenti e distacchi, di sogni e risvegli, sprigionati da questa Symphony of Sorrowful Songs, Sinfonia dei Canti Dolenti in cui l’autore volle condensare il dolore antico dell’uomo: nel rivisitarla, il coreografo la sottrae alla contingenza storica, e il canto struggente della prigionia, il lamento disperato della guerra si fanno poetica dei corpi e questa è corrente che ora aggrega ora frammenta, che disegna la vertigine con cui la vita di colpo vacilla e si sgretola e avanza nel buio in cerca di un grembo materno, o di ali per arrivare al sogno, o di mari in cui perdersi per tornare alle radici.
Il linguaggio dolente degli archi, la forza di una composizione che ha qualcosa di arcaico pur nella sua post-modernità, arrivano dritti “alla radice del dolore e della compassione”: la coreografia ne segue il percorso armonico, musica e movimento interpellano con uguale forza l’anima dello spettatore, insieme divengono metafora di quell’unico continuum che è la tragedia umana.
E tuttavia qui il linguaggio dei corpi oltrepassa il buio, diviene sfida ed energia; e il sommesso dolore di quella severa Sinfonia si fa, nell’idioma della danza, movimento catartico, sensuale e religioso a un tempo e tensione protesa, vitale e inesausta, verso il domani.
Ed è la natura coi suoi poliformi linguaggi a sostituirsi all’umano, nella seconda parte, con quella elegia dell’autunno che è Fall: evocazione della stagione che è la più bella – scrive il coreografo – perché abbraccia tutte le altre, perché ci ricorda da dove viene l’estate e dove finisce, con quella sua energia strana e malinconica “che mi sembra rappresentare il modo in cui sento la vita”.
Sono foglie colorate i danzatori, e piroettano insieme, o in giocoso duetto, o in dolcissimo assolo; la danza è quella delle foglie nel vento, è l’apparente caos che le muove e le solleva e le butta giù; è il moto dei danzatori in cui ogni caduta ha in sé la propria ascesa, e per ciascuno che cade una forza invisibile sembra riportarlo in alto; è energia che passa dall’uno all’altro come ininterrotta corrente, interazione potente di stasi e movimento, quella stessa della natura nel suo ciclo perpetuo e vitale di caduta e rinascita.
Il Fratres di Arvo Pärt, nel suo alternarsi di moto frenetico e calma sublime - “dove l’istante e l’eternità si confrontano dentro di noi incessantemente” - accompagna le foglie nel vento e il volteggiare dei corpi; così il cadere e sollevarsi di questi sono un tutt’uno ipnotico coi rimandi musicali “da specchio a specchio”, di Spiegel im Spiegel; fino alla melodia introspettiva e spirituale di Oriente e Occidente che suggella il posarsi delle foglie nel grembo della terra.
Una “creazione a strati”, come la definisce il coreografo, che dal caos iniziale conduce per gradi alla ricomposizione di un’armonia che è essenza stessa della natura, e riflette al contempo la resilienza e l’incredibile flessibilità dello spirito umano nella sua grandezza.
Incontenibile, la standing ovation che premia gli interpreti al termine: così tanto, grazie a loro, siamo “entrati” nell’autunno - e in noi stessi - che quasi ci sorprende la giovane primavera che incontriamo uscendo.
Ed è così luminoso il cielo stasera, a Lisbona.
Davanti a noi scorrono flussi di solitudini e memorie, di smarrimenti e distacchi, di sogni e risvegli, sprigionati da questa Symphony of Sorrowful Songs, Sinfonia dei Canti Dolenti in cui l’autore volle condensare il dolore antico dell’uomo: nel rivisitarla, il coreografo la sottrae alla contingenza storica, e il canto struggente della prigionia, il lamento disperato della guerra si fanno poetica dei corpi e questa è corrente che ora aggrega ora frammenta, che disegna la vertigine con cui la vita di colpo vacilla e si sgretola e avanza nel buio in cerca di un grembo materno, o di ali per arrivare al sogno, o di mari in cui perdersi per tornare alle radici.
Il linguaggio dolente degli archi, la forza di una composizione che ha qualcosa di arcaico pur nella sua post-modernità, arrivano dritti “alla radice del dolore e della compassione”: la coreografia ne segue il percorso armonico, musica e movimento interpellano con uguale forza l’anima dello spettatore, insieme divengono metafora di quell’unico continuum che è la tragedia umana.
E tuttavia qui il linguaggio dei corpi oltrepassa il buio, diviene sfida ed energia; e il sommesso dolore di quella severa Sinfonia si fa, nell’idioma della danza, movimento catartico, sensuale e religioso a un tempo e tensione protesa, vitale e inesausta, verso il domani.
Ed è la natura coi suoi poliformi linguaggi a sostituirsi all’umano, nella seconda parte, con quella elegia dell’autunno che è Fall: evocazione della stagione che è la più bella – scrive il coreografo – perché abbraccia tutte le altre, perché ci ricorda da dove viene l’estate e dove finisce, con quella sua energia strana e malinconica “che mi sembra rappresentare il modo in cui sento la vita”.
Sono foglie colorate i danzatori, e piroettano insieme, o in giocoso duetto, o in dolcissimo assolo; la danza è quella delle foglie nel vento, è l’apparente caos che le muove e le solleva e le butta giù; è il moto dei danzatori in cui ogni caduta ha in sé la propria ascesa, e per ciascuno che cade una forza invisibile sembra riportarlo in alto; è energia che passa dall’uno all’altro come ininterrotta corrente, interazione potente di stasi e movimento, quella stessa della natura nel suo ciclo perpetuo e vitale di caduta e rinascita.
Il Fratres di Arvo Pärt, nel suo alternarsi di moto frenetico e calma sublime - “dove l’istante e l’eternità si confrontano dentro di noi incessantemente” - accompagna le foglie nel vento e il volteggiare dei corpi; così il cadere e sollevarsi di questi sono un tutt’uno ipnotico coi rimandi musicali “da specchio a specchio”, di Spiegel im Spiegel; fino alla melodia introspettiva e spirituale di Oriente e Occidente che suggella il posarsi delle foglie nel grembo della terra.
Una “creazione a strati”, come la definisce il coreografo, che dal caos iniziale conduce per gradi alla ricomposizione di un’armonia che è essenza stessa della natura, e riflette al contempo la resilienza e l’incredibile flessibilità dello spirito umano nella sua grandezza.
Incontenibile, la standing ovation che premia gli interpreti al termine: così tanto, grazie a loro, siamo “entrati” nell’autunno - e in noi stessi - che quasi ci sorprende la giovane primavera che incontriamo uscendo.
Ed è così luminoso il cielo stasera, a Lisbona.
Sara Di Giuseppe - 3 Aprile 2022
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