Boris Pahor – foto Rai Cultura
“Chissà se, come dice la Scrittura, le ossa umiliate – tutte le ossa umiliate – un giorno esulteranno” (Claudio Magris, Prefazione a “Necropoli” di Boris Pahor, 2008)
Se n’è andato pochi giorni fa - il 30 maggio, a 108 anni - Boris Pahor, intellettuale e scrittore triestino di lingua slovena, lui che in un’intervista di qualche anno fa si augurava di vivere fino al luglio del 2020, centenario dell’incendio del Narodni Dum, il teatro sloveno nel centro della sua Trieste, bruciato dai fascisti il 13 luglio 1920: punto di partenza e simbolo, per Pahor che vi aveva assistito da bambino, della violenza con cui da parte italiana si era proceduto alla snazionalizzazione degli sloveni, iniziata ancor prima del fascismo (“… a quel bambino era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro.”) *.
Sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, lui prigioniero politico appartenente alla resistenza antinazista slovena, ne portava nell’anima le ferite, insieme a quelle della persecuzione fascista contro la minoranza slovena (perpetrata nelle forme più grottesche e umilianti, come il cambiare nome e cognome “non solo ai vivi ma anche agli abitanti dei cimiteri”) e giunta persino alla proibizione di usare la propria lingua… “ [quel bambino] non poteva capire che lo si condannasse per l’uso della lingua attraverso cui aveva imparato ad amare i suoi genitori e cominciato a conoscere il mondo”.
Gli sopravvivono i suoi libri tradotti in decine di lingue, che lo hanno consacrato tra i grandi nel panorama letterario mondiale.
Vi narra, o piuttosto vi scolpisce ciò che è indicibile, l’assolutezza dello sterminio e insieme il senso di colpa del sopravvissuto: di chi ha visto a fondo la Gorgone (come scrive Primo Levi) eppure è rimasto vivo fra i tanti che non ce l’hanno fatta, come l’amico Ivo, come Janoš, come Anatolij, come Gabriele…
[“Fra Ivo e me ci sono i miei sandali leggeri, i miei pantaloni estivi, la Fiat 600 che mi aspetta all’uscita…[…]. Così capisco che se volessi ridiventare degno della sua amicizia dovrei privarmi di ogni comodità e infilare di nuovo gli zoccoli della nostra miseria”]
Quella “colpa” non è negata né rimossa, “Io sono vivo, perciò anche i miei sentimenti più schietti sono in una certa misura impuri”: così scrive in quel suo Necropoli, capolavoro della letteratura dello sterminio, in cui ripercorre il proprio ritorno da visitatore, nel 1966, nel Lager di Natzweiler-Struthof sui Vosgi.
Non c’è amnistia per una realtà “che deve restare inconcepibile” (C.Magris) e perfino l’erba che lì continua a crescere, il mormorio del bosco, la vita della natura che segue i suoi cicli gli appaiono una profanazione.
Gli occhi estranei dei visitatori che percorrono i luoghi in cui il male si materializzò nella sua assolutezza “non potranno mai penetrare nell’abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana e nella libertà personale”. Eppure, in quella “necropoli” dove la ferocia e l’orrore si sono fatti storia, quelle persone “anche se la loro immaginazione sarà insufficiente per la visita che le attende riusciranno tuttavia a intuire, attraverso le vie del cuore, l’inconcepibile realtà del destino di quei loro figli perduti”.
Il filo impietoso della memoria si snoda ad ogni passo, anche se “le ombre dei morti si sono allontanate” e gli oggetti sono ormai spogli. Dove prima c’era la buca per la cenere, ora c’è un cimitero in miniatura, “cinto di pietre grezze con due scritte al centro: Honneur et patrie – Ossa humiliata”.
Ossa umiliate di un’umanità negata e vilipesa, immersa “in una totalità apocalittica nella dimensione del nulla”, "santuario umano” che apparenta per sempre il sopravvissuto “al fuoco e alla cenere di qui”.
Scompaiono ormai gli ultimi testimoni, baluardi della memoria contro l’ottusità della negazione, la colpevole semplificazione, l’assordante indifferenza.
Contro gli scellerati tentativi - più che mai ricorrenti, nelle istituzioni nazionali e locali affollate di ignoranti farisei - di accomunare faziosamente quell’unicum storico, quella macchina scientificamente pianificata al genocidio che fu la Shoah agli innumerevoli crimini contro l’umanità, quelle vittime e quei carnefici a tutte le vittime e a tutti i carnefici, contro tutto questo si ergono giganti come Pahor, come Levi, come la nostra senatrice Segre.
Essi testimoniano per sempre “l’intangibilità della dannazione”: purchè li si voglia ascoltare, superare il frastuono dell’indifferenza, la comodità dell’oblio, onorare la dedica con cui Pahor apre il suo Necropoli: “Ai Mani di tutti quelli che non sono tornati” .
*Tutte le citazioni sono tratte da “Necropoli” di Boris Pahor
Sara Di Giuseppe - 5 giugno 2022
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