Spoleto Festival dei Due Mondi 66 |
"La mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni e strida dentro di me: corde e arpe, timpani e tamburi. Mi conosco come una sinfonia"
[Fernando Pessoa]
Ricrea un Portogallo antico, questo Fado batido, il Fado danzato che unisce al canto il battito dei piedi al suolo in tutt’uno con la musica; danza vitale ed espressiva, irriverente ed energica, dei quartieri moreschi nella Lisbona della metà del XIX secolo che - come il flamenco e altre tradizioni coreutiche urbane - accoglie in sé la socialità, la cultura, i riti collettivi dei ceti popolari e dei gruppi bohémiens.
Danza da tempo dimenticata, tramontata fin dal primo dopoguerra e da allora non più associata al genere musicale - oggi Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità - e di recente ridestata dall’indagine preziosa e colta - fatta anche di certosine ricerche d’archivio - dei due coreografi e danzatori, il portoghese Jonas Lopes e il brasiliano Lander Patrick.
Ed eccola, questa danza fatta di “battiti”, risplendere nell’ibridazione tra spettacolo coreografico e concerto di Fado, rinnovare la felicissima sintesi di linguaggio coreutico e tessuto musicale tradizionali, lungo le quasi due ore di una performance artistica di altissimo livello tecnico e stilistico.
Scopriamo affascinati come possa divenire strumento a percussione il battito dei piedi al suolo, come possa incalzare vorticoso la voce e le chitarre, dialogare con esse, provocare i sensi. Gli artisti - tutti al tempo stesso e con uguale perizia, danzatori e musicisti - nella coralità dei moti come nei rari assolo disegnano trame narrative riconoscibili. Vi confluiscono la contemporaneità e il passato, le dinamiche sociali e i paradossi del reale; la poetica coreografica ne sollecita la coscienza ma sa concedersi alla trasgressione, all’ironia, alla caricatura: in questo rivelandosi, tutti gli interpreti, formidabili maschere attoriali nel trascorrere dal dramma allo sberleffo, dalla sensualità al grottesco, in una tuttavia costante, rigorosa attenzione alla musicalità e al ritmo.
Senza pause ci conducono - dovremmo dire ci travolgono - verso un acme visionario e di surreale bellezza: vi si intrecciano suggestioni ancestrali, miti e spiritualità, ritratto dell’umano e simbologie arcaiche; dalla prorompente fisicità della danza, dal vigore dei “battiti” che dettano il ritmo e fanno del corpo dei danzatori strumento musicale, un’alchimia intensa si sprigiona e riempie lo spazio scenico, colma la distanza fra interpreti e pubblico, attrae quest’ultimo nel cerchio magicamente creato dal suono e dal movimento.
Non meraviglia che venga giù il teatro - insomma la chiesa - dall’entusiasmo del pubblico, dall’esuberante empatia degli artisti, dall’incontenibile vitalità che promana da ciascuno di loro, dalla generosità con cui offrono, per salutarci, uno struggente brano di Sergio Endrigo, da un lontano 1968.
Ma questo è accessorio, ed è invece tutto ciò che abbiamo visto, ascoltato, vissuto e pensato nelle due ore, a risuonarci dentro, a farci percepire per un po’ forse, anche la nostra anima come una misteriosa orchestra.
Sara Di Giuseppe - 12 luglio 2023
Le immagini appartengono ai rispettivi proprietari e hanno il solo scopo di corredare il testo
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