29° INCONTRO NAZIONALE DEI TEATRI INVISIBILI
Laboratorio Teatrale Re Nudo
“INCANTO DI PAROLE”
Voci recitanti
Piergiorgio Cinì – Pierluigi Tortora
15 Ottobre 2023
Teatro dell’Olmo – San Benedetto del Tronto
“Ma com’è che si dice,
caro quel mio Pierino,
che la Terra è infelice?
(Salvatore Di Giacomo, Lassammo fa’ Dio)
È una festa della parola e della poesia, questa conclusione del 29° Incontro Nazionale dei Teatri Invisibili: appuntamento annuale che non delude mai ed è di per sé un monumento alla resilienza contro indifferenze e sordità assortite.
Due soli gli interpreti, Piergiorgio Cinì e Pierluigi Tortora, e l'intensa fisarmonica di Sergio Capoferri come cornice ora popolare e scanzonata, ora classica e drammatica.
E già loro sono un'intera compagnia teatrale; ma pure il palco che non c’è, nel piccolo affettuoso Teatro dell’Olmo, è strapieno: di personaggi immaginari e poetici; di figure reali che hanno attraversato il tempo e lasciato l’orma per sempre; di poeti e di scrittori che dell’anima umana hanno estratto il comico e il tragico, lo sberleffo e il pianto e il dolore eterno dell’uomo.
Festa itinerante, quella di oggi, nel tempo della storia e nello spazio della poesia; e nella geografia, anche linguistica, d'Italia.
Intanto è pieno di napoletani, stasera. Di quelli veraci di una volta, però, perché a Napoli oggi puoi andare solo attraverso la poesia e lì lo trovi ancora, quel sapore eduardiano e quell’aura di mito antico che malgoverni, malaffare, camorre, arraffo, turismo-tritatutto e tanto altro hanno fagocitato ed esistono ormai solo nella retorica qualunquista e benpensantista di cui siamo maestri.
Ed ecco uscire, dal poemetto-quasi-epico di Salvatore Di Giacomo Lassamme fa’ Dio, un sorprendente San Pietro santo napulitano, proprio lui nientepopodimeno, il capo guardapurtone del Paradiso: suo è il compito ingrato di informare domineddio - sceso sulla Terra per concedersi un po’ di vita dato che è Pasqua e prendersi una limonata in Piazza Dante - che quaggiù non è tutto ‘sto gran paradiso che sembra a Lui (che come si sa vive fuori dal mondo come tutti i governanti).
E conciosiacosaché domineddio prende atto, volgendo lo sguardo alle miserie che Pierino gli mostra, che la situazione di quegli umani è davvero afflittiva, gli viene la genialata di portarseli tutti in Paradiso. Una goduria per tutti i poveretti, salvo per la guastafeste che, va da sé, è una donna e pure pezzente. Perché a questa Nanninella le salta l'uzzolo di volersene tornare sulla Terra per stare col figlioletto e al paradiso preferisce la vita benché misera e l'amore, quello del figlio - E chella, / comme fosse mpazzuta, / cammenava, curreva, / nciampecava e cadeva, / e s’alzava… E fuieva… / Chiammatela! Addò va?!…
E il provvidenzialistico “lassammo fa' Dio” non vale per lei che la vita vuol scegliersela da sé, ed esser lei la Provvidenza di sé stessa. Lo capisce perfino Lui: – Zitto… – dicette ‘o Padre Eterno / Lass’ ‘a fa… lassa ‘a fa..’.
Ed è ancora un molto napoletano Paradiso in versi endecasillabi quello di De Pretore Vincenzo, del grande Eduardo.
Un Paradiso che un mariuolo dedito al furto proprio non vuole accoglierlo - perché è sempre mariuolo e doppo morto resta segnalato – nonostante il povero Vicienzo si sia scrupolosamente raccomandato in vita a San Gennaro che come santo è di quelli che contano assai.
Ma di fronte all’intero Gotha paradisiaco che per protesta, causa danno d’immagine che ne verrebbe per il respingimento, minaccia a catena di andarsene – comincia San Giuseppe che il più vecchio dopo Dio, e poi Maria che è la moglie, e Gesù Cristo che è il figlio, e sant’Anna che è la cognata e giù giù di parentela in parentela (un trionfo di nepotismo, il paradiso) - il Padreterno allarmato (Si o veramente ascite, o ve ne jate, / ‘o Paraviso nun ‘o pozzo fa), dopo opportuno interrogatorio al sunnominato Vicienzo, decide che Chistu napulitano resta ccà.
Ed è così che De Pretore Vincenzo, sparato a morte durante un furtarello, dopo aver sognato il Paradiso mentre sta per spirare, chiude gli occhi per sempre dopo una vita da emarginato e forse in paradiso ci va veramente.
Da Napoli a Roma, ed è una Roma incazzata questa di Trilussa che affida l’invettiva contro la guerra e l’abominio di quella da poco scoppiata – vedesse le altre… - ad una Ninna nanna della guerra (ottobre 1914) affilata come una lama… Ninna nanna, tu nun senti li sospiri e li lamenti de la gente che se scanna per un matto che commanna […] o a vantaggio de la fede per un dio che nun se vede ma che serve da riparo ar Sovrano macellaro…
Ma in questo magico Teatro dell’Olmo succede pure che dopo Napoli e Roma si finisca dritti in Sicilia: Chistu unn’è me figghiu - Questo non è mio figlio - è il grido di Felicia Impastato, mamma di Peppino, ucciso dalla mafia a Cinisi provincia di Palermo.
Sciabolano il buio della sala i versi di Felicia, detti in siciliano e in italiano: perché quarantacinque anni dopo le ossa di Peppino e il grido della madre non hanno cessato di reclamare giustizia e Questa bara piena / di brandelli di carne / non è di Peppino. / Qui dentro ci sono / tutti i figli / non nati / di un'altra Sicilia.
Riprendiamo fiato dopo i brividi, e Il pornosabato del Cinema Splendor (1987) di Stefano Benni non è solo risata liberatoria ma anche imperdibile performance degli interpreti: il testo si anima, prende vita dai leggii, le macchiette evocate sembrano materializzarsi sulla scena, e il partenopeo e il romanesco e il siculo lasciano il posto all’emiliano arguto e dissacrante.
È quanto ci serve per diradare le ombre, la narrazione di come qualmente il paese di Sompazzo venga sconvolto dall’apertura del primo cinema della sua storia, e nella programmazione di suddetto cinema venga inserito anche un film a luci rosse, e questo rivoluzioni codici morali e relazioni famigliari; e di come infine un involontario scambio di bobine faccia sì che al posto del secondo tempo del film a luci rosse, quel fatidico sabato venga proiettato l’arrivo di Coppi al Giro d’Italia… e di come, nelle cronache del giorno dopo, l’accaduto venga così commentato: "Coppi è bestiale. Pensa, nel primo tempo scopa per un'ora di fila, poi salta in bicicletta e vince" .
Non meno pittoresco in chiusura, dallo scoppiettante scritto di Chiara Bellabarba, il battibecco spettegolante (in chiesa! Ora pro nobbi!) di due tostissime comari marchigiane.
Impossibile lasciarli andare, i nostri due pirotecnici interpreti, senza chieder loro ancora una perla: ed è l’ironia disincantata e saggia del De Curtis per tutti Totò, che ci congeda col suo 'A livella e quell'indimenticabile finale: Sti pagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive / nui simmo serie… appartenimmo à morte!
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