30/05/24
Ci risiamo: “Tutto pronto”, così scrivono.
28/05/24
Dagli Appennini alle Alpi [da Montalto delle Marche a Borgo Valsugana (TN)]
36° FESTIVAL degli APPENNINI
[Canti della montagna, alpini e popolari]
Montalto – Cattedrale 18 Maggio 2024
Quando di notte vaghi per Montalto alla ricerca di un parcheggio è come perdersi tra le colline qua intorno. Poi, mentre entri in Cattedrale per il concerto delle Corali, ti senti come al cospetto di una montagna. Bella, grossa e larga - sembra il Gran Sasso - non aguzza come lassù le Dolomiti.
Ma c’è del Cuore, qua dentro: quello dei coristi delle corali. Quelle loro voci educate e difficili, sorprendenti e imprevedibili, profonde, proprio di cooperativa, di sindacato… quelle “facce da cinema, facce popolari” (Pasolini) che quasi non si trovano più – qui negli Appennini come nelle Alpi – o che se ne stanno da parte, riservate nelle loro vite di lavoro vero, metodico, intelligente, probabilmente del tutto manuale. Li guardo: li immagino artigiani, operai, agricoltori non di pianura, autisti di utilitarie, elettricisti (…l’intelligenza degli elettricisti – “Un gelato al limon”, Paolo Conte). In maggioranza adulti adulti, tutti maschi, ragazzi quasi zero. Divise che più sobrie non si può, ben oltre il francescanesimo. Niente tatuaggi e tagli di capelli arditi né scarpacce pitturazzate, anche se le scarp del tennis – ma quelle del Jannacci – non avrebbero stonato.
Cosa cantano è prevedibile, dopo 36 anni… Non m’intendo, ma secondo me c’è del nuovo, ci sono ancora studio e passione e sperimentazione, da parte dei maestri direttori, nell’amalgamare tante frequenze così diverse per ricavarne suoni d’orchestra che forse per la prima volta in questa cattedrale percorrono traiettorie inedite, si colorano di altri colori nei marmi degli altari e nei dipinti di santi, girano nei blu della cupola e tornano veloci giù tra noi dribblando file di colonne. Poca allegria, certo, son repertori che non perdonano. Ma si avverte più saggezza che malinconia, più rispetto che rassegnazione. Ed è musica corroborante, pur spesso cadenzata e marziale, non certo jazz. Non servono strumenti, queste voci li battono. In potenza, in ingegneria, in anima.
Amarcord… tanti decenni fa… nel gelo del Convitto di Assisi: quando in certe tristi “ricreazioni” i nostri compagni montanari (così li chiamavamo, noi del sud, quelli delle valli e delle montagne di Belluno, Trento, Vicenza…), le facce quadrate e pallide chiazzate di rosso-rosa ancora senza barba, si appartavano seri e sottovoce – ma di Cuore – intonavano (pressappoco ma anche bene) certi loro canti cupi e complicati che stasera ho riconosciuto e risentito con commozione lontana. Sarà che a quei tempi a scuola imperversava soprattutto Carducci…
PGC - 28 maggio 2024
26/05/24
ERRATA CORRIGE!
21/05/24
IL MITO, IL TEATRO, LA STORIA
AGAMENNONE
di
ESCHILO
Scuola di teatrlaboratorium27 Aikot
di e con
Vincenzo Di Bonaventura
Ospitale delle Associazioni – Grottammare
19 Maggio 2024
Qual è questo nuovo, immane dolore?
Immane sventura si prepara in questa casa.
(Eschilo, Agamennone, ep.IV - strofe IV)
Ci voleva il carisma del "nostro" Di Bonaventura perché la tragedia greca tornasse ad essere rito collettivo come per la Grecia in antico, e una sala fosse inusitatamente colma di pubblico in un territorio in catalessi culturale, in un giorno da segnare con bianca pietruzza.
E ci voleva la passione di bravi discepoli-attori, guidati dal ragazzo del secolo scorso, il Vincenzo furens, regista e attore-testimone indomito che oggi nell'eschileo Agamennone si fa corifèo: il saggio, dubbioso vecchio argivo che interroga, diffida dei segnali fallaci (Uso da tempo il silenzio per medicare le pene); che parteciperà poi della vittoria argiva e gioirà del ritorno del suo re, sarà pietoso con l’allucinata Cassandra principessa e preda di guerra (Perché queste grida d’orrore? Perché l’anima s’adombra?); assisterà infine al compiersi del fato sanguinoso di una stirpe maledetta, vaticinato dalla profetessa inascoltata.
E una tragedia giovane di quasi 2.500 anni (458 a.C., secondo anno dell’ottantesima Olimpiade) ci parla, con le voci di questi interpreti, dell’eterna sorte dell’uomo: così del suo smarrirsi incolpevole nell’intrico di circostanze che lo sovrastano e travolgono, come del suo affacciarsi sugli abissi del proprio animo e viverne fino in fondo l’orrore.
Il coro degli argivi, il corifèo, l’araldo, Clitennestra e Agamennone, Cassandra, Egisto: elementi della scacchiera sulla quale il tragediografo ha montato "la macchina dell’angoscia”; una tensione sospesa che dal preludio dei silenzi notturni in cui la sentinella spia i segnali dell’attesa vittoria su Troia dopo un decennio di guerra - Attendo dagli dei la liberazione da questo fardello: da lunghi anni ogni notte dal tetto degli Atridi [..] contemplo i convegni notturni degli astri - passa all’esultante annuncio da parte della regina: la lunga teoria di fiaccole accese dai tedofori sulle cime montuose che separano Troia da Argo dice che Troia è caduta e distrutta; si placa con l’arrivo del re vittorioso e nell’ambiguo gioco psicologico tra il raggelato, tronfio Agamennone e la regina con la sua compressa sete di vendetta per Ifigenia immolata dal padre come candido agnello sull’altare della ragion di stato; si innalza nuovamente nell’oscura angoscia del Coro - Perché svolazza qui davanti al mio cuore presago un’ombra paurosa? - dinanzi ai furenti vaticini della profetessa; culmina nel compiersi del fato: Agamennone e Cassandra trafitti, la regina trionfante sul fiume di sangue che imporpora il trono.
La tragedia si chiude, ma si posano sulla tracotanza di Egisto, sulla tetra alterigia di Clitennestra, le parole del Coro presago dell’ulteriore vendetta che Oreste compirà sui due assassini: poichè sarà ancora la legge del genos – il delitto che reclama vendetta in un’inestinguibile catena di sangue - ad occupare la seconda tragedia dell’Orestea, Le Coefore; solo nella terza e ultima - Le Eumenidi - con l'assoluzione di Oreste da parte dell'Areopago, la cultura del genos (il clan, la stirpe, la famiglia) si sottomette alle leggi della polis, dunque della comunità civile e politica.
Straordinaria modernità di Eschilo che fa, del mito, teatro di poderosa efficacia scenica e spettacolare, e sul mito innesta la concretezza della Storia e la sacralità delle istituzioni.
E nel farlo ci consegna, al tempo stesso, figure poetiche eterne: nell’abisso interiore di Clitennestra, negli smarrimenti dell’antagonista Cassandra ritroviamo l’intrecciarsi del sublime e del tragico che attraversa in ogni tempo l’ininterrotto fluire della vicenda umana.
Lasciamo tardi la sala e portiamo con noi l’eco della bellezza. E ci appare senza tempo questa limpida notte di maggio: lontana dal nostro presente feroce e disumanato, dalla guerra ancora scelleratamente “sola igiene del mondo”, dalla sguaiata barbarie di ritorno rozzamente mascherata di civiltà.
19/05/24
13/05/24
10/05/24
Il senso del jazz (tra filologia e modernità)
KIRK LIGHTSEY QUARTET
KIRK LIGHTSEY PIANO PAUL ZAUNER TROMBONE WOLFRAM DERSCHMIDT CONTRABBASSO DUSAN NOVAKOV DRUMS
ASCOLI PICENO – COTTON LAB [Cotton Jazz Club Ascoli] 3. 5. 2024 h21
“Il senso del jazz, tra filologia e modernità”: poteva essere questo, stasera, il titolo della straordinaria Lectio Magistralis in musica del - veterano - Kirk Lightsey e del suo - non veterano - quartetto al Cotton Jazz Club Ascoli.
Una “lezione” entusiasmante e imperdibile, in cui il jazz standard della tradizione novecentesca è apparso diverso, libero da quella sua patina di tarda malinconia, lontano da quella sua immagine un po’ statica e prevedibile. Rinvigorirlo con un mosaico di sonorità abbaglianti e tuttavia rispettose, è ciò che ha fatto il pianista che forse più di tutti del jazz “antico” s’intende: Kirk Lightsey, appunto. Facendo emergere, di quel jazz, da un lato l’anima filosofica nascosta: la romantica rotondità dello swing - di lontano sapore beethoveniano, perfino - la pulsante energia sotterranea del blues, le prudenti o avventurose esplorazioni tra realtà e fantasia che di continuo fermentano in questo fluido genere musicale; producendo, dall’altro, continue innovazioni lampo sul tema, di sorprendenti e inesauribili tecnica, talento e giovanile energia. Sempre con classe naturale, dialogando instancabile e felice in ogni maniera, teatralmente, coi suoi fidi musicisti e con noi.
Neppure all’intervallo ci ha concesso riposo, abbracciandoci uno ad uno nei corridoi, al bar. Si toglie la giacca giusto alla fine del concerto. Prima, pattugliando i muri dell’auditorium con le locandine, i manifesti, i poster e i murales fotografici dei musicisti esibitisi nei decenni al Cotton (saranno più di cento!), s’era soffermato su ognuno con devozione e affetto: di tutti si ricorda, ha suonato con tutti…
Oggi Lightsey viaggia nel tempo e non smetterà, rilancerà anzi ancora più forte, col suo jazz d’impianto tradizionale eppur fonte di “modernità” e di quelle sorprese che da lui ti aspetti… E tuttavia niente di spaesante, stravagante, funambolico. Con le dita sprint che si muovono con sicura gioia come sul velluto, nelle dinamiche percussive come nelle sospensioni mistiche; e note tante, ma col dovuto infinitesimale silenzio tra loro. E quei suoni determinati - temperati - e indeterminati, e il coesistere di modo maggiore e minore, le dissonanze al cubo, quei riverberi elicoidali ed eleganti. E quel tempismo d’incanto del quartetto, che tutto enfatizza.
Per i tre, lo spartito è lui, comunicatore naturale che “vede” la musica prima di sentirla. Però attenti a quei 3, relativamente giovanissimi, ma tutt’altro che comparse.
Il composto Novakov alla batteria, gli occhi puntati su Lightsey a intuirne e sottolinearne le invenzioni, le sue “riflessioni” sui piatti, le sue raffiche-di-pace morbide, i suoi pensieri sorridenti, sempre al tempo giusto.
E Derschmidt-con-cappello al contrabbasso, magro ma tosto, finissimo solista, ordinato mediatore di suoni e di silenzi e complice delle trombonesche incursioni del possente Zauner - lì davanti col trombone a stantuffo di locomotiva a vapore dalle bassissime monumentali frequenze di vocalità di foresta - pensoso fabbricante di note d’avventura quasi buffe, quasi umane, chissà… forse di derivazione fiabesca. Anima nobile e perfino emozionale attore solista, declamatore autorevole di storie e canti baritonali in inglese (beh, con accento viennese…).
BRA--VI.
PGC - 10 maggio 2024
08/05/24
GOTT MIT UNS
Se la biondocrinita bersagliera di lotta e di governo si fosse informata, al Raduno Nazionale dei Bersaglieri nella leghistissima Ascoli Piceno non si sarebbe piazzata in testa il cappello piumato a mo’ di padella da cucina come fanno le reclute ignare e maldestre, condannate perciò da consolidata regola militare a pagare da bere a tutta la caserma.
Se lo sarebbe ben collocato con inclinazione a 45°, e verso destra (manco a dirlo!) e “in modo da coprire il sopracciglio e appoggiarsi sul lobo”: così dev’essere, le regole sono regole.
Improbabile che abbia pagato da bere a tutto il cucuzzaro, lei-non-sa-chi-sono-io eccetera, però ad Ascoli è stata comunque una giornatona, la sua, con corsetta d’ordinanza (quando traffichi con bersaglieri è il minimo che ti capita) fatta passare spiritosamente per inattesa e improvvisata ma se ti presenti già in tuta e scarpe da running non puoi fare la faccina stupita: al saggio finale delle elementari recitano meglio.
E’ il marketing, bellezza, la ragazza lo sa e vince facile, dato il parterre che le sbava intorno: folle festanti, “Ascoli pazza per i bersaglieri” e “L’abbraccio di Ascoli ai Bersaglieri, emozioni e spettacolo…” sono i titoloni più moderati della stampa locale in eccesso di salivazione e somara in italiano; orgasmo collettivo ed estasi di Santa Teresa tra i giornalisti piceni, marchigiani in genere e nazionali, per le sue performance piacione: la corsetta col sindaco al fianco (che ha l'espressione un po' così, diversamente sveglia, ma lui fa le maratone, ci tiene a dirlo) e poi il cappello piumato sulla capoccetta, e poi le carezze al bambino… Com’è umana lei, signora mia.
Si potrebbe morire dal ridere, o dalla noia invece, se non fosse che i tre giorni di megaeventi ascolani con sconfinamenti in provincia, lievitati intorno ai “fanti piumati” (scrivono così, che volete farci) - e auguriamoci che le piume siano finte, ma considerato il contesto non ci scommetterei - fanno il paio con le celebrazioni nazionali per il 163° anniversario della fondazione del glorioso Esercito patrio, pochi giorni prima - 3 maggio - all'Ippodromo militare romano di Tor di Quinto, sempre alla presenza della Fratelladitaglia.
Niente di nuovo sul fronte occidentale: altri papaveri di governo vi hanno partecipato in passato, solo che stavolta è un filino più sinistro.
Perché l’iconografia è più muscolare e pettoruta di sempre; perché la retorica bellicista pervade di sé ogni anfratto dell’informazione e della propaganda politica, esplicita e subliminale, e passa l'idea che dulce et decorum est pro patria mori specie se l’industria delle armi in Italia tira che è una bellezza e imprenditori e politici e politici/imprenditori e politici/ex imprenditori brindano a champagne.
Così l’occhiglauca Fratelladitaglia che in piedi sul veicolo bellico, davanti alla Bandiera di guerra dell’Esercito, criniera al vento e sguardo corrusco, sfila insieme alla santabarbara dei sistemi d’arma (vedere per credere) è il definitivo suggello alla normalizzazione dell’idea stessa di guerra.
E' sempre per gradi, d'altronde, che avanza il peggio.
Già metabolizzammo il summit europeo di Strasburgo con la folle teorizzazione del passaggio dell'Europa ad una ”economia di guerra” (sic); poi i deliri di Macron-Napoléon - “il capo di stato più stupido d’Europa” - che s’è stufato di giocare coi soldatini finti a casa sua e vuol mandare quelli veri sul fronte ucraino, per vedere l’effetto che fa; poi l'incremento sconsiderato della spesa nazionale per gli armamenti con sottrazione di risorse a tutti i settori fondamentali della vita pubblica (è di oggi il reiterato “ordine” NATO di arrivare subito al 2% del PIL nazionale. Signorsì, signore!).
Non ci resta che assimilare la retorica bellicista condensata nell’orwelliano “La guerra è pace” - del resto sembra che ci piaccia, a giudicare dalle folle festanti - e far nostro il motto, summa della più cupa simbologia bellica nella storia tragica dell’umanità in armi:
GOTT MIT UNS
Dio è con noi.
QUALE Dio?...