03/08/24

Quattro tavole in croce

 

Temptations 

Scuola di teatrlaboratorium 27Aikot 

 

Assassinio nella Cattedrale 

di Thomas Stearns Eliot

 

Riscrittura scenica di e con

Vincenzo Di Bonaventura e Simone Cameli

 

 

Grottammare – Ospitale delle Associazioni    30 luglio 2024 h21

 

 

 

Notte, resta con noi, fermati sole, 

non spunti il giorno, non venga la primavera.


(Th.St.Eliot - Assassinio nella Cattedrale, Coro - 1935)

 

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Quattro tavole in croce / e qualche spettatore / chi sono lo vedrai … cantava il grande Aznavour nel suo “Istrione”.


     Quattro tavole in croce sono qui un tavolo rovesciato in verticale, a sostenere un vetusto tamburo di probabili gloriose bande cittadine. Più una sedia, design sconosciuto, aria vissuta, ruggine quanto basta, recuperata da qualche nascosto angolo.

 

   Quattro tavole sono qui un palcoscenico self-made, ma Vincenzo è avvezzo a montare e smontare ben più massicci e ragguardevoli palcoscenici in larice, ovunque le sue voci di dentro e la malattia del teatro lo abbiano chiamato e lo chiamino: che siano piazze o casa sua o radure di Sentina o campo di basket…

 

     E non l’Istrione cantato da Aznavour, qui, bensì il nostro monumentale regista-autore-attore-sceneggiatore-tecnico del suono; e insieme, il  tamburo che con voce di tuono suggella la parola, la sentenza, il grido, il lamento. 

Macchina attoriale nel pieno esercizio delle sue funzioni, Di Bonaventura: la cui memoria metabolica ri-scrive il testo, ne fa “teatro del testimone”, ne estrae voci che scuotono e sollecitano, interrogano la coscienza dello spettatore, anni luce lontane dal birignao del teatro istituzionalizzato e “mortale”.

 

     E c’è Simone, ieri talentuoso allievo, oggi carismatico attore degno di tanto maestro: una croce al collo, un paramento sacro e un tavolo su cui salire, sandali e tutto, ed è un Thomas Becket Arcivescovo di Canterbury che neanche Richard Burton ai bei tempi.

     Su tutto, c’è il genio di Thomas St. Eliot, il canto desolato di morte intorno all’eroe solitario di una fede che non si piega al potere, nel dramma che si compie fra il 2 e il 29 dicembre dell’anno 1170. Thomas Becket, fidato cancelliere di Enrico II, da questi nominato poi Arcivescovo di Canterbury e Primate d’Inghilterra, deciso a difendere la libertà del clero contro lo strapotere dell’autorità temporale e per questo riparato in Francia, ne torna dopo 7 anni, pur consapevole della precarietà della pace offerta, lucidamente presago della fine che inesorabile arriverà per mano di quattro zelanti cavalieri al servizio del re.

     Un po’ dramma elisabettiano, un po’ tragedia classica (come in quella, il Coro ne è elemento essenziale), il dramma di parola getta fasci di luce sulle dinamiche del potere, sulle relazioni di questo con gli individui e i popoli ed ha la trasversalità potente dei capolavori che superano la storia e si fanno metafora dell’agire umano in ogni tempo e sotto ogni cielo: della dicotomia eterna tra libertà e potere, in particolare, che in Becket è dissidio tra aderenza al credo religioso e lealtà verso il sovrano.

     Non si sottrae al suo destino, Becket - il suo agire è pacato come il sermone di Natale pronunciato nella cattedrale di Canterbury - e sceglie la coerenza che gli dettano il suo cuore e i suoi princìpi. Rifiuta le prospettive che i quattro tentatori gli offrono - come le tentazioni di Cristo nel deserto - per indurlo alla fuga, al tradimento, al compromesso; si sottrae al fervore dei suoi stessi seguaci che lo vorrebbero salvo anche per il loro egoismo, per preservare il fragile equilibrio di vite comunque schiacciate dal potere: “O Tommaso Arcivescovo salvaci, salvaci, / salva te stesso perché noi ci possiamo salvare / distruggi te stesso e noi saremo distrutte” supplica il Coro delle donne di Canterbury.


La fine presagita e attesa arriverà e sarà solo, Becket, davanti agli emissari del re.

 

     Guerra, tradimento, odio: c’è il nostro presente nella sconvolgente atemporalità dell’opera; ci sono l’ambiguità e la capacità manipolatoria del potere sugli individui e sui popoli: emblema poderoso ne sono le arringhe autoassolutorie che i quattro emissari del re pronunciano – direttamente rivolti al pubblico – al termine dell’azione.


     Hanno nomi e titoli altisonanti - barone Guglielmo de Traci, Reginaldo Fitz Urse, sir Ugo de Morville - e argomentazioni da taverna di quart’ordine così sinistramente simili alle applauditissime culture muscolari e prevaricatrici dell’oggi - “Sono un uomo di fatti, non di parole” dice il primo, e il  secondo “Avevo bevuto un poco per darmi forza (…) è cosa che si fa controvoglia uccidere un Arcivescovo (…) abbiamo avuto bisogno di montarci” - 

 

     “Noi siamo stati perfettamente disinteressati” è l’argomento cavalcato dai quattro con ossessivo acceso zelo: l’interesse della patria, che questi “quattro inglesi alla buona” hanno messo innanzi a tutto, è ciò che li ha spinti, e nulla invece sarebbe accaduto se quel benedetto arcivescovo non si fosse rifiutato di incontrare i desideri del re e realizzare così quello stato ideale che nasce dall’unione dell’amministrazione temporale con quella spirituale.

     Fervore autoassolutorio – “Sfortunatamente vi sono tempi nei quali la violenza è l’unico modo per poter assicurare la giustizia sociale” – con cui gli artefici del delitto presentano sé stessi come meritevoli di plauso e culmina, sfociando nel grottesco, nella finale arringa del “quarto cavaliere”, Riccardo Brito. 

Per costui, in un’apoteosi di delirio mistificatorio, il mostruoso egoismo dell’alto prelato lo ha reso indifferente ai destini del paese, fino ad indurlo a cercare la sua stessa morte rifiutando la fuga - “Dalla sua condotta, passo per passo, non si può concludere se non che aveva deciso di morire martire” e pertanto si può dire con verdetto assolutamente certo e “caritatevole” che la morte di Thomas Becket - “dopo tutto, un grande uomo”, bontà loro - è stata un “Suicidio per infermità di Mente”..

 

     C’è del grottesco, ahinoi, in ogni tragedia, e l’aria che vibra nel dramma di Eliot non è in tal senso meno pesante dell’odierna: l’opera ha “attraversato la linea del tempo” illuminando a giorno le dinamiche manipolatorie, ricattatorie, inafferrabili dei sistemi di poteri, in passato come – e forse più – nel nostro oggi. 

     Il Di Bonaventura moltiplicato - in tre Sacerdoti, un Araldo, un Coro di donne, quattro Tentatori - e il Simone Cameli/Thomas Becket, sfidando eroici gli spietati neon dell’Ospitale, hanno plasmato per noi, nella ri-scrittura scenica, nella memoria del fatto storico, nel loro farsi attori-testimoni, i contorni di sistemi che giocando coi destini dei popoli esercitano la loro coercizione mascherandola sotto le forme di libertà e democrazia.



 

 Chiarite l'aria! pulite il cielo! lavate il vento!

separate sasso da sasso, separate la pelle dal braccio

separate il muscolo dall'osso e lavateli!

Lavate il sasso, lavate l'osso,

lavate il cervello, lavate l'anima,

lavateli, lavateli!

(Seconda parte, Coro)

Sara Di Giuseppe - 2 agosto 2024


 

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