26/02/25

La motosega di Lucciarini

In scala sono un po’ l’equivalente della motosega del presidente (si fa per dire) argentino Javier Milei, i due mazzi di carte da gioco che il sindaco di Ripatransone, Alessandro Lucciarini De Vincenzi  ha fatto trovare in bacheca qualche giorno fa ai dipendenti comunali con un ordine di servizio tipo “oggi giocate a carte” o giù di lì, per sottolinearne pubblicamente  - ironicamente, dice lui - il fancazzismo.  

*(v.cronaca)

La motosega, nell’immaginario plasticamente primitivo del capelluto  Milei dovrebbe  evocare le “misure di riduzione dello stato libertario”; così come i mazzi di carte, nel loro altrettanto primitivo (e presunto) simbolismo, veicolerebbero il messaggio di vituperio per i fannulloni comunali. 
Non bastasse, cotanto sindaco s’è fatto intervistare e toccando vette di lirismo ha dissertato sul valore nobilitante e formativo del lavoro, gradino perché si compiano le magnifiche sorti e progressive dell’umano genere, e via poetando. 
Me cojoni…

 

Stabilite le opportune differenze anche tricologiche fra i due soggetti, è tragicamente chiaro che il Milei  nostrano difetta di alcuni fondamentali  riguardanti il ruolo e la funzione ricoperti.
La trovata carnascialesca volta ad inchiodare i fancazzisti comunali può andar bene se parli al bar, o giocando a bocce, a briscola, a freccette o a quello che ti pare. E comunque toglietegli il fiasco.

 

Da sindaco - pare lo si studi già in terza elementare - persegui a norma di legge i fannulloni rubastipendio conclamati e comprovati; se inoltre decidi che esemplarmente debbano essere additati al pubblico ludibrio, ne indichi i nomi.
Invece ha sparato nel mucchio, il sullodato.
Il ricorso alla pasquinata deve averlo fatto sentire particolarmente corrosivo e forse divertente. Ma ahimè, temiamo si siano divertiti solo lui e qualche milione di italiani che ne hanno appreso le gesta dai notiziari nazionali.

 

Tocca purtroppo constatare come in paese la vicenda, pur stigmatizzata da molti – se non altro per la figura da cioccolatai che il sindaco ha regalato alla sua cittadina a livello nazionale – non abbia generato un corale moto di indignazione espresso a piena voce e con i toni duri che ci si aspetta in tali casi.

 

Salvo il tiepidino comunicato della minoranza in Consiglio Comunale e quello in sindacalese del sindacato, appunto, nessuna indignata sollevazione collettiva di tutti gli offesi da un’accusa irresponsabilmente generica che colpisce indiscriminatamente e fa il giro del Belpaese come una pittoresca barzelletta. Silenzio da parte dei cittadini, i quali criticano ma sottovoce, eh! che nessuno ci senta!

In fondo sono cosucce: perché trovare scandaloso - e addirittura osare dirlo a voce alta! - che un sindaco ricorra ad una trovata clownesca  (offensiva per tutti i lavoratori che non c’entrano, e che trascina la sua cittadina nel ridicolo) per colpire alcuni lavoratori inadempienti?

 

Tutta la vicenda dice parecchio sulla qualità del nostro ceto politico e amministrativo; altrettanto lunga la dice sul servilismo tremebondo - e per ciò stesso connivente -  che impedisce ad una cittadinanza, alle sue istituzioni, alla sua stampa, di reagire a così desolante autoritarismo privo di autorevolezza.
 

*https://bologna.repubblica.it/cronaca/2025/02/22/news/ripatransone_ordine_sindaco_alessandro_lucciarini_de_vincenzi_tornei_carte_orario_lavoro-424020815/

 

Sara Di Giuseppe - 25 febbraio 2025

 

19/02/25

Quando i cani non abbaiano più

L’idea che serpeggia nella nostra stampa è molto superficiale e analogica. Capisco la propaganda, il guaio è quando poi uno ci crede veramente, che è il dramma dei nostri giornalisti.

      [Luciano Canfora, intervista a Il Fatto Quotidiano, 16.2.’25] 

 

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      I cani da riporto, pardon i giornalisti della grande stampa nostrana, hanno smesso d’abbaiare, dopo averlo fatto per tre lunghi anni. La nobile missione: convincere noi popolino che, come ordinavano i padroni (Stati Uniti e NATO) dei loro padroni italioti, la guerra in Ucraina era guerra santa, che bisognava produrre e inviare sempre più armi - come volevano le lobbies delle armi e il loro ministro di riferimento, l’androide quasi antropomorfo Crosetto - e dobloni naturalmente: perché la guerra è giusta, perché la guerra è bella anche se fa male, e torneremo ancora a cantare e a farci fare l’amore dalle infermiere.

      E clown vestiti da corrispondenti di guerra indossarono giubbotti ed elmetti a chilometri di distanza dalle zone di combattimento per sturare il fiasco della retorica e della mistica belliciste. 
E a chi caldeggiava un accordo che mettesse fine alla follia, giù randellate mediatiche, insulti, liste di proscrizione.

 

      Soprattutto: vietati i negoziati, vietato anche solo parlarne, il pazzoide Zelensky li vietò per decreto, le diplomazie occidentali e in particolare Stati Uniti e Regno Unito di Boris Johnson bloccarono l’accordo tra Mosca e Kiev tracciato già nell’aprile del ’22.

 

      Demagogia e propaganda bellicista furono abbracciate con entusiasmo guerriero da una dezinformatsiya prona ai deliri dell’Europa asservita ai poteri politico-economici.

      Ora che la guerra è perduta, gli sgovernanti europei e i loro cani da riporto altro non sanno che frignare sull’irrilevanza dell’Europa, pestare i piedi per avere un posto a tavola, va bene pure uno strapuntino: come se i negoziati non li avessero proprio loro esclusi, banditi, osteggiati boicottati per tre anni ogni volta che anche soltanto se ne accennava, ostracizzato chi lo faceva (Francesco compreso); come se non avessero dato fiato alle trombe di guerra, come se ai tromboni della stampa appecoronata (cioè quasi tutta) gliene fosse mai importata una cippa dei miliardi buttati in armi, e dei morti, e dei mutilati, di una generazione scomparsa, di un’economia europea distrutta e immiserita nel grado di civiltà e nei bisogni essenziali proprio dalla corsa agli armamenti.

      Ecco allora, provvidenziale per rinfocolare l’ira e il giovanil furore di un sistema mediatico al minimo storico di credibilità e indipendenza, la lectio magistralis di Mattarella a Marsiglia: sbagliata e da bocciatura storiografica ma bastevole a ridar fiato a tutto il cucuzzaro delle prefiche di regime strette a coorte intorno al presidente (come attorno ad un generale pazzo che ti manda alla guerra) per lanciare anatemi all’indirizzo della cagna sovietica che osò protestare. 

      Sì, perché la portavoce del governo russo ebbe l’ardire d’incazzarsi, la sciagurata, per essere stato il suo paese paragonato al Terzo Reich; e da chi, nientepopodimeno? - come ha ricordato la cagna comunista - dal presidente di uno Stato che proprio del Terzo Reich fu alleato e di quello condivise le nefandezze salvo poi fare una giravolta e oplà. 
Proprio come adesso che, dopo aver sostenuto, fomentato, armato, finanziato la guerra, osteggiato ogni trattativa e farneticato di vittoria ucraina scodinzolando dietro alla presidente a sonagli Ursula Vondertruppen, piagnucola per avere la prima fila nella foto ricordo della trattativa di pace, e si indigna perché quelli che liberarono l’Europa dal nazifascismo s’incazzano nel sentirsi paragonati al Terzo Reich.

 

Insomma, a forza di abbaiare, i cani da riporto italioti hanno perso la voce e gli è rimasto solo un imbarazzante viscerale borborigmo.

 

      Ma sono in ottima compagnia: tutto il circo della politica - nessuno escluso - s’è levato come un sol uomo a difesa del capo dello stato, mentre l’ostinato silenzio di quest’ultimo riusciva - era prevedibile - a far incazzare quelli ancora di più. Quando sarebbe bastata, a spegnere l’incendio, una letterina di scuse: c’è stato un qui pro quo, non volevamo dire quello, siamo stati fraintesi, voi non sapete l’italiano (neanche noi..), scurdammece ‘o passato e nemici come prima.

 

      Sarebbe bastato che Mattarella, il firmatutto-firmafacile più amato dagli italiani, riconoscesse d’aver detto scempiaggini (capitava anche a Ribambiden); capisse che affermare “l’odierna aggressione russa all’Ucraina è della stessa natura del progetto del Terzo Reich in Europa” oltre ad essere offensivo per un popolo che il Terzo Reich lo ha combattuto sacrificando 25 milioni di vite, è una solenne manifestazione di crassa ignoranza storica, oltre che fuorviante e diplomaticamente rischiosa: inaccettabile perfino se detta tra anziani alla bocciofila, figurarsi da un capo di stato in lectio magistralis mentre gli danno l’ennesima laurea ad honorem.

 

- Insomma, tra gli errori palesi nel discorso di Mattarella (sorprendenti nel massimo rappresentate di uno Stato) e le esegesi a comando che ne sono state fatte, si legge in controluce non solo la cara vecchia russofobia all’aroma di naftalina anticomunista, ma un pernicioso impianto ideologico fondato sul pregiudizio che l’unico modello di “civiltà” possibile - ed esportabile - sia quello dell’occidente liberal capitalistico dominato dalle élites finanziarie. Lo stesso che nella storia più e meno recente ha dato ampia prova di sé in termini di intolleranza, repressione, prevaricazione dei diritti di libertà e autodeterminazone dei popoli.
 
Sara Di Giuseppe - 18 febbraio 2025

11/02/25

FORT BALLARIN

     Ne avevamo bisogno: a Nord, dopo l’abbattimento delle 2 tribune-“tappo”, la città era troppo scoperta. Non come a Sud, dove siamo abbastanza ben difesi dalla cementificata Torre sul Porto della Riserva Naturalistica Sentina e dalla (perfino ristoratrice…) Caserma Guelfa con relativa torre di vedetta a Porto d’Ascoli. E ad Ovest, dove la Torre dei Gualtieri (lu Campanò) del Paese Alto fa ancora paura agli indiani Sioux, che se con Coda Chiazzata o Nuvola Rossa provano ad attaccarci anche da Est, (dal mare, mica dal Mississipi…) - annegherebbero tutti. Insomma a Nord proprio ci voleva, questo forte fortissimo FORT BALLARIN inchiodato a morte sul “prato” dell’indimenticato disperato stadio Ballarin. Ma non è un altro “tappo”, peggio di quelli tolti?

Senonchè da alcuni mesi FORT BALLARIN cresce brutto e gonfio, lentamente, a singhiozzo, con continui ripensamenti sul progetto, sui costi, sui contenuti, sui tempi… E il popolo mormora, i nostalgici tifosi della Samb minacciano invasioni nei Consigli Comunali Aperti, i giornali velinano quello che trovano. 

Mentre FORT BALLARIN ha già suo un record: è il primo tutto di cemento armato come il Pentagono, non di bel legno come FORT APACHE. Ha pure quel fossato tutt’intorno che bastano 50 mm/hr di pioggia per riempirlo e renderlo invalicabile - con le bombe d’acqua arrivano i coccodrilli! Servirà quindi aggiungere un ponte levatoio come alla Rocca Costanza di Pesaro, o fisso come alla Rocca Roveresca di Senigallia. Qui di cemento, ovvio. Altre spese. 

     Certo che il famoso archistar parmense CANALI è deluso e depresso, alla sua età mica va bene... Se dal Comune partono spesso a trovarlo in pellegrinaggio, ogni volta lo deludono con obiezioni e rocambolesche varianti al suo progetto originario, che era stato pure approvato a mugugni, bestemmie e servile entusiasmo. Gli hanno spazzato via pure i laghetti dai fondi specchiati, le corroboranti cascatelle, il campetto di bocce, i cespuglietti autoctoni, i vialetti ad angoli acuti…

     Chissà però se l’archistar reagirà meglio, quando dopo Carnevale i nostri Spazzafumi torneranno da lui in missione (ancora mascherati) ad informarlo che per farsi perdonare, sul desertificato spiazzo a nord di FORT BALLARIN, giusto adiacente alla rotatoria, riserveranno un grandissimo piazzale attrezzato per i pullman CANALI BUS 


PGC - 10 febbraio 2025

05/02/25

TALIS FILIUS, TALIS PATER

 TALIS FILIUS, TALIS PATER
 [si chiamano pure uguale…]
 
 
“Giornate epiche” nella Laguna di Venezia.

Circola trionfale un video (non più clandestino) in cui il prode primogenito di Donald Trump (47 anni, la creatura) dentro una “botte da caccia” spara assatanato con un simil-cannone a forma di fucile* a tutto quello che vola: a comuni anatre stanziali ma anche a una specie protetta a rischio d’estinzione, l’Anatra Casarsa (Tadorna ferruginea). 


Una strage. 


E’ successo in un’Area Protetta privata, con tutti i permessi, anche dell’Assessore alla Caccia. Tutto tutto regolare! Hai voglia adesso a fare interrogazioni e denunce.



Ma il bello è quanto altro il padre, Donald senior, già stimato professionista in materia, stia ancora imparando dal figlio Donald junior!

Guardate come fa il Presidente, che al mondo vede solo “anatre da impallinare”. 


TALIS FILIUS, TALIS PATER.

Allora invitiamoli subito, i due TRUMP, alla Riserva Sentina di San Benedetto. Potrebbero liberamente scatenarsi a sparare (e spararsi!) come alla guerra. 

Tanto anche qua, con l’aria che tira, permessi regionali e autorizzazioni di ogni genere non mancherebbero. BANG-BANG.

 

*probabilmente BERETTA, in omaggio all’Italia…

 
PGC - 4 febbraio 2025
 

 

 

 

04/02/25

IL CARNEVALE DI POE

 

“POE” 

Regia e Coreografia      Lenka Vagnerová

Musica                 Ivan Archer


Národní Divadlo (Teatro Nazionale) - Laterna Magika


Praga    26.01.2025 



Tutto ciò che vediamo, o che ci par di vedere
non è ch’un sogno dentro un sogno.


[E.A.Poe, 1849]


 

“Il dolore ha molti volti. La miseria del mondo assume molte forme” scriveva Edgard Allan Poe e il suo genio allucinato estraeva da quel dolore le immagini di un mondo capovolto e folle, quasi scena teatrale in cui ogni cosa è possibile. Universo diviso tra orrore, misticismo, sogno, umorismo, quello di Poe: che ricreato per il Laterna Magika del Teatro Nazionale dalla coreografa e regista di teatro-danza Lenka Vagnerová, si trasforma in gigantesco carnevale, sorta di teatro totale che coinvolge attori, ballerini, maschere, performer, oggetti di scena; fatto di danza, canto, parole, musica. 

Quest’ultima, nelle sonorità create da Ivan Archer con la stratificazione degli strumenti e i suoni speciali,  aderisce ipnoticamente al mondo visionario di Poe trasferendone sul piano musicale in ugual misura il lirismo, la sofferenza, la follia. 

 

E sono i racconti Il pozzo e il pendolo, Hop Frog, La maschera della morte rossa, interconnessi dalla struttura drammaturgica e raccordati da audaci soluzioni scenografiche, a fare dell’universo onirico, poetico, ammaliante dell’autore uno spettacolo iperbolico e sorprendente, inquietante e labirintico. 


Vi trionfa la forza evocatrice dello scrittore che seppe scandagliare ogni angolo, luminoso e oscuro, della psiche umana; riconoscervi la bellezza, contemplare con occhio assorto il potere e il male nelle sue infinite ramificazioni, prendersi gioco del demoniaco, sentire la poesia dove più la paura, la povertà, il dolore aggrediscono la dignità umana. 

Vi riversava intera  la sua esperienza di vita, la percezione del volto oscuro delle cose, la coscienza della morte come elemento costitutivo della vita e dell’amore, lo stigma di un'esistenza vissuta controcorrente (così come bambino nuotò per 6 miglia controcorrente nel fiume James a Richmond). 

Quell’universo dolente e profondamente intimo racchiudeva in sé gli interrogativi eterni dell’uomo, e quello che Dino Campana chiamerà più tardi il panorama scheletrico del mondo.

 

Su questa scena le storie, non narrate bensì evocate, si dipanano in un caleidoscopio di immagini di assoluta oniricità, di soluzioni visive eccentriche, di fantastici oggetti di scena in un flusso continuo di azioni che materializzano pensieri, emozioni, deliri di una creazione letteraria tuttavia lucidissima, che della mente umana ha scandagliato tutte le profondità, anche quelle che non vorremmo vedere, che non avremmo mai visto; che seppe scrivere con uguale profondità  di filosofia e di Dio, di morte e di vita…

 

Ecco allora, in questa produzione che unisce danza e drammatizzazione, l’enorme pendolo del racconto omonimo, con la sua lama tagliente simile al braccio di una torre mineraria, attraversare ritmicamente il palco per fermarsi ora a destra ora a sinistra

Ecco i corvi disseminati sulla scena far da contorno alla figura dello stesso Poe emergente da un tappeto di libri e di carte. 

Ecco nello straniante Hop frog i surreali deformi costumi dei cortigiani, quasi a voler renderne visibile esteriormente la deformità interiore (costumi che sadicamente si incendieranno – ma qui è solo vento – proprio come, se è vera la storia, in quel “ballo delle lucciole” del 1393 in cui i costumi del re francese Carlo VI presero fuoco).

Ecco la danza degli Inquisitori, terrificanti nell’immobilità facciale e nelle pettorine bianche emergenti dalla scena buia; ecco i topi (meccanici, vivaddio) invadere la scena; ecco i ballerini spostarsi meccanicamente su carrucole fissate ai piedi in una rigidità robotica che accresce l’orrore.


C’è la farsa e c’è il dramma, ci sono le atmosfere gotiche  e la poesia, in questo allucinato carnevale da cui emerge la forza creativa di un gigante della letteratura. 

Ci sono i fantasmi sinistri che ne popolarono l’immaginario esistenziale,  c'è il suo universo letterario alla ricerca costante della perfezione; c'è il lato oscuro di una sensibilità accesa tanto segnata dalla perdita e dalla paura quanto attratta dalla bellezza e dalla poesia (Ch.Baudelaire trovava, nella sua, “qualcosa di profondo e luccicante come il sogno, di misterioso e perfetto come il cristallo”).

 

Un mondo interiore tormentato e immaginifico, un messaggio universale che promanava dalla cognizione del dolore tanto quanto dallo slancio vitale che a quella si accompagnava: tutto questo si è fatto spazio a lungo oggi sulla scena, e con l’amorevole devozione che si deve ai grandi ha materializzato qui, per noi, il  genio ammaliante e unico di questa “lanterna magica”, il fantasma lunare di Poe. 

 

 
Sara Di Giuseppe - 3 febbraio 2025

01/02/25

AL RITMO DEL CUORE

 “bpm”
[beats per minute]

Coreografie:
Artza di Eyal Dadon – Bohemian Gravity di Yemi A.D. – Bill di Sharon Eyal e Gai Behar

Solisti e Corpo di Ballo del Teatro Nazionale di Praga

Teatro Nazionale - Praga - 25 gennaio 2025 h18


Battiti per minuto - beats per minute - è la misura del tempo, così nella musica come nel movimento e nella frequenza cardiaca.

Due coreografi cechi e un israeliano, e un trittico coreografico che al centro ha l’uomo, il suo cuore pulsante che tutto determina, che stabilisce il ritmo del corpo e il corpo a sua volta influenza il ritmo del cuore, della musica, della danza: tutto questo è qui, nella danza che si fa messaggio critico sullo stato della nostra umanità, sullo scontro degli opposti che è oggetto primario della scena e la scena è il mondo, teatro delle contraddizioni nel quale da sempre confliggono natura e cultura, istinti e regole sociali, libertà individuale e ordine gerarchico. 

 

Che sia l’animale interiore, ingabbiato da regole e confini sociali, evocato in “Artza” - espressione ebraica del comando perentorio che viene dato al cane - in cui il vocabolario della danza si fa metafora di una società voyeuristica che rifiuta l’animalità ma ne è al tempo stesso attratta; che sia “Bohemian Gravity” evocante nel sottotitolo - Searching for Freedom - quella ricerca di libertà nel labirinto esistenziale che è sfida illusoria e spesso perduta, proprio come il tentativo di contrastare la forza di gravità che ci riconduce ogni volta a terra; che sia l’ipnotico “Bill”, in cui l’uniformità dei corpi fasciati da costumi identici, spersonalizzati fino all’estremo da lenti incolori che accentuano l’astrazione degli sguardi: l’intero trittico è esso stesso metafora, nella diversità delle parti, della belligeranza tra forze uguali e contrarie - natura e società, individuo e massa, diversità e omologazione - che definisce ontologicamente la natura umana.


In ciascuno dei tre elementi la danza dispiega un vocabolario di movimento di rara forza evocatrice: ora dilata lo spazio scenico, come in Gravity, dominato da cerchi concentrici che  paiono voler attrarre i danzatori nella propria orbita luminosa come corpi cosmici e i corpi disegnano arabeschi di moto che sembrano spingerli al di sopra della materia salvo esserne respinti dalla propria ineluttabilità corporea; ora lo restringe claustrofobicamente evocando in Artza le gabbie della nostra ferinità interiore e dell’umano soggiacere all’artificiosità degli schemi, alla ferocia delle gerarchie; ora infine lo spazio stesso sembra ritrarsi e scomparire, in Bill, in una dimensione astratta e atemporale fatta di corpi robotizzati, uguali e ugualmente indistinti.


È soprattutto in Bill, nella stratificazione ipnotica di ripetizioni, che la danza riproduce il secolare dissidio tra coscienza individuale e maschere sociali: nel gruppo umano uniforme e indistinto la ripetizione degli schemi di movimento, l’alternarsi di fluidità ed elementi robotici, il linguaggio musicale duro e minimalista affidato al ritmo di musica techno, tutto questo disegna un unicum indifferenziato di individui (…Stesso tempismo, stessa forma, stessa idea, stesso stile… e al tempo stesso assoluta differenza, sottolinea la coreografa Sharon Eyal) e chiama in causa il ruolo del singolo nella massa, le relazioni di quello con la società, quell’imposta uniformità che solo in apparenza è armonia. 

 

E sono allora lo scatto del corpo, l’interruzione del moto, la deviazione dalla traiettoria, ad indicare lo strappo nella rete, l’anello che non tiene; e l’astrazione di una danza sofisticata, quasi asettica, cede alla concretezza e al peso di una materia umana che superando contraddizioni e paradossi pulsa da milioni di anni al ritmo del cuore. 

Nell'intensità del tessuto musicale che appoggia ed esalta la fisicità dei danzatori, emergono la perfezione di una tecnica rigorosa ed un'espressività attoriale con cui ogni interprete contribuisce a disegnare l’immaginario confine tra mondo interiore e mondo esterno, 

Così che possiamo ricordare a noi stessi, quale che sia il mondo che ci contiene e ci ingabbia, che sempre è  il ritmo del nostro cuore la misura vera e autentica del vivere.

 


 
Sara Di Giuseppe - 31 gennaio 2025